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domenica 15 gennaio 2012

Repost: "L'Officina del Grillo": presentazione e spiegazione / 9-01-2010

Cari amici/lettori,
ecco qui la novità! Ho rimodernato il blog, gli ho cambiato aspetto e soprattutto, cosa importante, l'ho rimodellato dal punto di vista concettuale.
Innanzitutto il nome: L'officina del Grillo.
L'ho scelto perchè è così che lo voglio usare d'ora in poi: come fucina delle mie creazioni letterarie, oltre che come vetrina del mondo e di me.
La prima novità (prima solo in ordine di tempo), e per ora la più vistosa, è la scomparsa di Scapolo Simmati, che richiede una spiegazione a sè, forse un po' prolissa, ma indispensabile.
Scapolo Simmati. Le lettere di questo nome e cognome, anagrammate, danno il mio. Ebbene, non è un caso, perchè Scapolo Simmati è un mio pseudonimo con il quale ho firmato delle poesie, delle invettive che questo personaggio rivolgeva contro un altrettanto immaginario personaggio, William, suo ex collega di lavoro all’università che, in combutta con Anna, una loro collega, lo aveva fatto sedurre per poi gettare del
discredito su di lui e fargli perdere la cattedra in Ricostruzioni Tardoantiche.
La depressione era stata così forte che gli aveva fatto tentare il suicidio, e poi era tornato in Italia per dimenticare, non ci era riuscito e infine era morto.
Aveva però lasciato volutamente le sue ultime poesie a me, per invogliarmi a investigare.
Poi io avrei scoperto la verità, facendo confessare a William che cosa aveva fatto, e riabilitato così la sua memoria. Questo doveva essere l’epilogo apparente.
Poi mi sarebbe stata recapitata una lettera da Santiago del Cile firmata da un certo Diego Hèrnandez che svelava di essere proprio Scapolo, che aveva finto la sua morte per farmi investigare. Diego aveva trovato una moglie in Cile e quindi aveva rinunciato del tutto al suo nome e alla sua rivincita. La felicità raggiunta come direttore di un locale giornalino, sposato e con un bimbo in arrivo, non era paragonabile a quella che avrebbe trovato restando negli USA.

Ecco, in soldoni, quello che volevo dire negli ultimi 2 capitoli (più la lettera). Una storia che con la mia vita privata aveva solo vaghe attinenze, e solo tematiche: io credo che ogni scrittore parli di sé nel suo lavoro, partendo da quello che ha vissuto o vorrebbe vivere. Ma questo discorso, se sviluppato a dovere, mi porterebbe troppo lontano, e io sto scrivendo per darvi un annuncio.
La storia di Scapolo Simmati finisce qui. Cancello quasi tutto. Lo faccio però con alcune precisazioni.

Quando, a Palazzo Paleotti, ho cominciato a scrivere “Ho deciso di vivere molto meglio…”, volevo pubblicare un gruppo di tre invettive scritte e firmate da me. Scapolo ancora non esisteva. Poi, d’impeto, ho continuato. E quella frase, “io, da parte mia” è diventata un ritornello. Ho superato la decina, e mi sono ricordato di un vecchio foglietto nel quale avevo appuntato degli anagrammi del mio nome: mi sono ripromesso di guardarlo, quando fossi tornato a casa. Nel frattempo, quello che scrivevo era e non era più mio, diventava un’altra cosa: diventava un atto di difesa contro l’ingiustizia che c’è nel mondo. E cominciava a crearsi in mente una storia. “Perché quest’uomo è incavolato? Perché lo sono io, certo. Ma perché lo è lui? Chi è? Che cosa gli hanno fatto?”. Mano a mano che mi si formavano queste idee, ripensavo a quando ho cominciato a scrivere poesie. È stato in terza media. Così ho cominciato a scrivere il suo necrologio, che all’inizio era una semplice biografia: volevo solo presentare le poesie di un mio coetaneo. Ma perché allora lui non si era fatto un suo blog, perché aveva bisogno del mio tramite per pubblicarle? “Perché le teneva nascoste” è stata la risposta. E allora, io come le avevo avute? Beh, o gliele avevo fregate, oppure…
Oppure lui era morto, e quelle erano poesie postume.
Quindi, potendo solo fare supposizioni, sarebbe scattata in me la voglia di indagare: e infatti all’inizio prevedevo di alternare alle poesie le indagini. Poi ho accantonato il progetto e volevo farlo finire con l’ultima, l’epilogo, densa di significato proprio perché abbandonava i toni delle precedenti e parlava di tutt’altro, di senso della vita, di valori veri, non espressi in negativo (per anti-calco di William), ma in positivo. Quella, infatti, non la rimuoverò.
E le altre? Per quelle bisogna fare un discorso a parte.
Nate in un momento buio, erano in origine 34, come i canti dell’Inferno. Dovevano essere altamente simboliche e raffigurare altrettanti stati d’animo: ma di quest’intenzione c’era ben poco nella pratica. Cominciai comunque a pubblicare le prime tre o quattro, e mi resi subito conto che stavo facendo una cavolata abnorme. Erano banali, ripetitive, irose, piene di veleno. Feci una cernita in corso d’opera, e ne pubblicai “solo” 28, però non mi limitavo a fare copia e incolla: le rimodellavo, le riordinavo, le rendevo un corpus. In alcuni punti, mi sono anche divertito a rincarare la dose: non mi interessava più quello che volevo dire io, ma quello che a lui premeva; stavo dando loro l'impronta di Scapolo. E dopo le prime quattro o cinque, questo Scapolo cominciò ad essere un ritratto morale definito, che nonostante detestasse gli idealisti (come me) suo malgrado lo era. Allora ad interessarmi non era più il suo antagonista, ma cominciava a diventare lui. Tanto che le ultime poesie non sono affatto quelle che ho scritto in origine, ma altre, più meta-letterarie. E il mio rapporto con la scrittura è rinato: ma non avevo ancora qualcosa di nuovo da dire. Aggiungevo nuovi dettagli, gli davo uno sfondo (gli USA, l’ambiente accademico),
allargavo la cerchia di Scapolo: e allora la sua storia da universitario, il suo tentato suicidio, la sua ex. Ma non volevo che la sua vita fosse una cesura netta prima/dopo: anche dopo, aveva continuato a godere del prestigio accademico. Se avesse voluto, avrebbe potuto ricominciare. Non averlo voluto è stato un errore che lo aveva condotto alla morte, e che resta, appunto, un errore: esprimendo questo, nell’ultimo capitolo, che conteneva anche un elogio funebre, contrapponevo alla sua dipartita la “nostra” voglia di lottare, che alla fine aveva portato a qualcosa di positivo, mentre il suo volersi chiudere non era approdato a nulla.
Piano piano stavo trovando qualcosa di nuovo da dire: il mio esserci-nelle-cose. Vivevo distratto, non avevo attenzione: e con quella era andata via anche la fantasia. Tornando l’attenzione, ecco che tornava l’immaginazione: e ho cominciato a scrivere gli apologhi.
Mi ricordo di aver detto che “lirica è il sentimento dell’universale nel particolare”. Credo che sia fondamentale, in poesia e in generale nella scrittura. Fuor di metafora: scrivere significa trovare in quello che succede nel mondo qualcosa di altro, di più centrale. Così su questo blog, da sempre, ogni cosa che mi è successa è stata lo spunto per parlare di qualcosa di paradigmatico, di esemplare: valga, uno per tutti (l’ho preso davvero a caso) il post del 23 settembre 2008 (lo trovate cliccando qui).
Per questo, con le poesie di Scapolo ho quasi da subito avuto un rapporto conflittuale: ad un certo punto, esaurita la spinta propulsiva della rabbia, mi sono chiesto perché stessi continuando a pubblicarle. Poi ho capito, ed è uno dei motivi per cui ho preparato anche una raccolta (“Poesie 2007-09”) in cui queste poesie sono in una sezione a parte, seguite da quelle che ho scritto da gennaio in poi: “Partenze ed arrivi”. Erano il mio punto di partenza: per il quieto vivere, avevo tralasciato la mia coscienza. Nel momento in cui questa ha avuto uno scatto di orgoglio, ecco che di prepotenza sono tornato a parlare di morale. Era arrivato il momento di dire “ma che schifo ho davanti, vediamo un po’ di cambiarlo!”. Dopo aver scritto quelle invettive, il mio modo di fare poesia non era stato più lo stesso: avevo smesso di essere passivo ed ero diventato propositivo. Propositivo di un’idea della letteratura, di un’idea dell’uomo: e in conclusione ho posto un epilogo che descrive l’insostituibilità di ciò che si è perso e la necessità di andare avanti. Perché i pezzi della scacchiera non sono uguali: perderne uno solo significa aver perso una parte del proprio essere.
Voglio pubblicare qui l’introduzione alla raccolta.

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Premessa
Per non offendere?

Gran parte di queste poesie non hanno bisogno di nessuna spiegazione: per alcune però, che si riferiscono a un certo evento, si è resa necessaria.
Dopo un grosso litigio, ho riconsiderato in maniera radicale il mio posto nel mondo, nella società, nel groviglio delle mie relazioni. Da questo è nata l'urgenza di capire che cosa mi stava succedendo. La risposta è stata quella di creare un alter ego con una sua storia, parallela alla mia, che ne svelasse le contraddizioni, l'essenza. Volevo sapere cosa ci fosse di sbagliato in me.
La soluzione migliore che ho trovato è stata quella di dare voce direttamente a lui, alla sua rabbia contro qualcuno e contro il mondo. È stato liberatorio, confortante, ma non risolutivo. Alla fine, le parole per spiegarmi sono dovute venire da me, e queste sono le altre poesie che riguardano l'argomento, sparse qua e là nella raccolta (in tutto cinque su circa una settantina: questo per evidenziare che non è stato un “accanimento”, ma una riflessione a margine delle altre).
Vi chiederete perché ho inserito le poesie di Scapolo nella raccolta. L'ho fatto perchè, al di là della storia che raccontano, sono mie. Sono ciò che credo sulla vita, sul disinteresse, sulla lealtà, sul valore della parola scritta. Lo erano quando sono nate e lo sono ancora adesso, separate dalla contingenza dell'episodio. Sono invettive contro gli egoisti, contro chi considera i rapporti umani una finzione e calcola solo il proprio interesse. Non significa niente che per me questo qualcuno è stato, fino ad un certo punto, identificabile: lo sarà per chiunque le leggerà, ognuno darà loro un destinatario diverso, personale. Per questo la pubblicazione della poesia ha senso:
serve a chi legge.
La decisione di inserirle è venuta dopo aver pensato al senso della parola, del pensiero, del mio ruolo di artista. Non si è trattato di ripicca o di affronto, e valga, per spazzare via ogni dubbio, quest'ultima rassicurazione: mi scuso se, per la pubblicazione in volume di queste poesie, qualcuno dovesse sentirsi offeso. Credo di non poterlo esprimere più chiaramente di così.
Ma non ho potuto censurarmi: non avrebbe avuto senso tenerle segrete per non rischiare di offendere. La letteratura, la poesia, l'arte, sono fatte per colpire la sensibilità del lettore, per spingerlo a ripensarsi, a rimodellare il suo io. Seguire, nella cernita (che pure c'è stata), un criterio diverso da quello della qualità sarebbe stato assurdo. Non rimpiango nessuna delle mie scelte.
La selezione che ho fatto corrisponde a un'intenzione che avevo già da quando le pubblicai sul blog: lì ne arrivarono solo 28 (contro l’attuale ventina), ma non tutte contraddistinte dall'intento morale che volevo che avessero. In origine erano 34, come i canti dell'Inferno, e per raggiungere questo numero ne scrissi anche di fini a se stesse, che mano a mano ho provveduto ad eliminare. Ripeto: questi tagli sono dovuti a motivi estetico-morali, non per compiacere nessuno. Quanto ho scritto mi appartiene, moralmente ed intellettualmente.
Biograficamente, non più. Scapolo, si può dire, è davvero morto con la pubblicazione di queste poesie: questo libretto è la sua vera epigrafe tombale.
Le altre poesie “firmate da me” che riprendono la questione sono degne come le altre perché rappresentano la mia reazione di fronte al cambiamento: non attacchi verso qualcuno, ma tappe significative della mia coscienza in questo percorso.
Il vero epilogo però è altrove: non nella rabbia, non nel dispiacere né nella nostalgia, ma in una scelta di coerenza e saldezza intellettuale che mi ha portato a non accontentarmi mai di ciò che, pur essendo comodo, non mi appagava.
Spero che questa spiegazione non sia stata inutile. Mi secca moltissimo spendere così tante parole solo per una parte di questa raccolta, facendo sembrare il resto un accessorio: in realtà è stato il contrario, la parte su Scapolo ho pensato di aggiungerla alla fine, è solo la “partenza” per riprendere il titolo. Arrivo: è questo il nucleo. La partenza ha senso in quanto ciò che ho abbandonato, ma molto più importante è ciò che ho raggiunto. Per questo adesso dovrei parlare, in proporzione, del resto della raccolta, ma impiegherei troppo spazio e non ne vale davvero la pena per un'operetta stampata per il diletto mio e di una decina di lettori. Non lo faccio, ma sentendomi in colpa: non era necessaria nessuna introduzione. Spero che, in futuro, non ci sarà più bisogno di auto-recensirmi: soprattutto per un poeta, quello che conta è la coscienza del lettore. È uno specchio che funziona al contrario: non sono io a vedermi, ma voi. E se sarò riuscito nel mio intento potrò dire di avere qualche speranza.
Questo discorso si è spinto fin troppo in là. Se ho scritto queste pagine è stato per evitare inutili fraintendimenti e far si che quello che c'è qui dentro possa essere gustato senza pregiudizi, per quello che è. Non servono altre parole.

Alla prossima
Grillo Sognatore

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