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lunedì 30 gennaio 2012

Repost: Malinconia / 16/04/2011

C'è un racconto molto bello, nei Sillabari di Goffredo Parise, sulla malinconia: la storia di una bambina che, a volte, si lascia prendere da questo sentimento. è un racconto che non spiega niente perchè nella malinconia non c'è niente da spiegare: è il sentimento più vago e misterioso di tutti. Ci sono sentimenti più vaghi, certo, come il malessere, o più misteriosi, come l'amore, ma nessuno riesce a coniugare i due con così tanta intensità.
Del malessere, almeno, possiamo conoscere la causa (almeno in generale), e pertanto non è così misterioso; e dell'amore la causa non si conosce, ma è non è affatto vago. Ma la malinconia cos'è? è positiva o negativa? Da dove nasce? dove va a parare?
La malinconia non ha obiettivo: si rivolge al Tutto indefinito. ma cos'è? non si sa. la si potrebbe definire "uno sconsolamento prodotto dall'insufficienza del mondo". Ma insufficienza di cosa? di felicità? e in che senso? perchè la felicità tu sai benissimo che nel momento in cui sei malinconico sei tu stesso che la stai dissolvendo. Dunque la causa della tua malinconia è la tua malinconia stessa.
In sostanza, se dovessi descriverla, userei una tautologia: non c'è malinconia se non nel momento in cui uno "si sente malinconico". In buona sostanza, è una pippa mentale.
Liquidata così la questione, l'oggetto però resta.
E Baudelaire, nei Fiori del male, ne ha fatto uno dei pilastri della sua concezione poetica: non c'è amore, non c'è Ideale, non c'è bellezza che non sia velata dalla malinconia, dall'insoddisfazione, che si trasforma, quando l'uomo perde la fiducia nella raggiungibilità di quegli obiettivi (amore, Ideale, bellezza), in spleen, altro sentimento quasi indefinibile che non a caso non ha sinonimi precisi: oscilla tra la depressione, l'alienazione e lo sconforto. Comunque, non una cosa molto allegra.

Scusate questa parentesi letteraria/filosofica che non so dove vuole andare a parare: è solo che dopo essermi imbevuto di Baudelaire per una settimana (ho appena dato l'esame di Letteratura frencese del XIX secolo) sentivo il bisogno di fare almeno una secrezione scritta di quest'angoscia che ho letto pagina dopo pagina.

Questo non toglie che nei Fiori del male ci siano anche delle poesie di uno stranissimo sentimento di serenità e grandezza, quasi sublimi: per esempio L'invito al viaggio, della quale Franco Battiato ha dato una sua personale versione musicata. è una traduzione un po' opinabile (soprattutto perchè ha eliminato dal "ritornello" baudelairiano la parola "lusso", non so perchè), ma molto molto molto bella, un'abbinamento perfetto tra parole e musica.

Anzi, visto che è così bella, ve la posto.



Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Poesia politica / 04/04/2011

Una vena che avevo perduto da tempo, che ho ritrovato improvvisamente alla fine dell'anno, quando come tutto il mondo ho dovuto fare un bilancio: e ho scoperto che non riuscivo a districare la mia biografia da quella del mio Paese, che dovevo, per descrivere che cosa mi era successo, parlare di quello che è successo a tutti, o almeno alle persone ancora sane di spirito che abitano in Italia.

31/12/2010

Ho visto giorni neri, pesanti,
coperti da un cielo grigio e ammantati di nebbia;
e ho tenuto stringendomi il cuore le chiavi di una prigione
ignorando – o fingendo di farlo – il bambino che dentro piangeva;
ho visto in faccia anche la morte,
quella dell'odio, liquore amaro
che droga e non arriva mai a dissetare;

e ho sentito – senza osare voltarmi – il grido d'orrore
di un Paese stuprato, perfino lo strappo,
il pianto e la mano dolciastra
dell'uomo che gli tappava la bocca. Ho visto gente
divertirsi a guardare lo scempio, e l'ignoranza
entrare endovena negli occhi di troppi.

Ho scritto versi pieni di troppa rabbia per essere letti,
e visto cose così disgustose da non riuscire neppure a parlarne;
ed ho pensato che la forza di un uomo non sta nelle gambe,
ma nella lotta che abbatte i nemici che ha in testa.

31/01/2011

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Nuvole nere (inspired by Ludovico Einaudi) / 24/03/2011

Si tratta di una poesia che intendevo spacciare per "scapoliana": siccome era un periodo che ascoltavo Einaudi a manetta, avevo composto una serie di poesie ispirate alle sue composizioni, che non c'entravano con la mia indagine: un modo per creare a tutto tondo il personaggio di quel mio pseudonimo senza limitarlo alla storia che stavo raccontando.

Questa era un po' che avevo intenzione di postarla, perchè mi piace: e dato che ormai è scollegata dal suo contesto, l'ho un po' rimaneggiata, soprattutto per quanto riguarda la versificazione (era un po' sperimentale e calligrafica, come un po' tutte le poesie che riguardavano Scapolo (che era un po' l'immagine del poeta che non rispetta le regole).

Nuvole nere

La linea dei miei passi disegna
una curva più o meno diseguale che intreccia
il volo delle rondini, in alto, chissà
dove. Quello che non capisco è che significa
il disegno che traccio, che muove la mano
che mi tiene come una penna su un foglio
già mille volte scritto.
Una prigione dalla quale non posso scappare
e che non ha sbarre, pareti, confini.
Una forma che mi costringe
ad essere me. A respirare. A camminare.

Nuvole nere sul mio cammino.

Giovedì 24 marzo 2011

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: [Apologo] Un Re / 02/03/2011

Avevo voglia da un sacco di tempo di postare questo racconto, che ha un significato molto bello (spiegato in fondo), poi non so perchè me n'ero dimenticato: l'ho trovato ieri mentre facevo un po' di ordine tra i miei scritti (a proposito, vorrei anche parlare dei miei progetti, ma lo farò domani).


Un Re

Buongiorno, mi presento, sono un Re.
Governo un Reame non molto vasto, ma abbastanza confortevole da poterci vivere in tranquillità.
Certo, anche noi come tutti gli altri reami abbiamo screzi con i confinanti - ora un abuso da parte dell'esercito ad Est, ora uno da Ovest, ora invece una pretesa dinastica, eccetera, insomma tutte le cose che possono succedere nei normali rapporti tra Stati sovrani, a volte basta anche solo che l'interprete sbagli a tradurre una frase dell'ambasciatore e subito partono gli eserciti - ma nel complesso viviamo piuttosto bene.
Bene, se si eccettua la contesa di Conscience.
Conscience è un piccolo pacifico paesino di nessuna importanza, quattro case, tutti agricoltori a parte qualche pastore, un falegname, un panettiere e che ne so? Magari avranno anche un fabbro e un sindaco, magari anche un albergo a ore e qualche prostituta che ci campa su, non posso mica sapere i fatti di ogni paesino del mio Regno. Se lo conosco è per un motivo ben preciso: è collocato in un punto così cruciale che se disgraziatamente qualcuno dovesse prenderne possesso non ci sarebbe speranza per noi, saremmo già automaticamente defunti come Paese. Finora la pace si era mantenuta perché anche per il Regno confinante quello era un punto strategico: dall'altro versante della Grande Dorsale, infatti, sorge un altro paesino speculare a Conscience, anche quello di quattro case, agricoltori e pastori, eccetera eccetera.
Fino a un certo punto la situazione è stata perfettamente bilanciata, tanto che io neppure ci pensavo più a Conscience. Prima ci facevo qualche visitina, facevo capolino dall'altro lato della montagna, controllavo che anche il Re vicino stesse facendo altrettanto, anzi qualche volta abbiamo fatto anche delle visite reciproche: lui veniva da me, io andavo da lui, tutto tranquillo, tutto a posto. E quindi con il passare del tempo di Conscience me n'ero proprio dimenticato, pensavo a cose più importanti, la criminalità nelle grandi città, la pirateria, il brigantaggio, la corruzione dei miei ministri, il deficit di bilancio, i ritardi nella costruzione di infrastrutture, eccetera, cose che voi immagino conosciate benissimo, non devo stare nemmeno a parlarne.
Conscience, dicevo, era del tutto scomparsa dalla mia memoria. Finché il mio ministro degli Interni mi si presenta davanti improvvisamente, infrangendo qualsiasi regola di etichetta (l'ho perdonato solo per la grave notizia che mi ha dato) urlando: "Maestà! Conscience è in pericolo! Il Regno è in pericolo!"
Potete immaginare la mia angoscia. Una grossa frana aveva cambiato completamente le carte in tavola, rendendo il passaggio verso Conscience molto più agevole dall'altra parte perché in discesa, mentre per me sarebbe stato più difficile contrattaccare. La situazione non era più
speculare.
E' iniziata così una lunga guerra di logoramento, in cui per ogni centimetro perso o guadagnato (si trattava di conquistare pochi chilometri, le nostre trincee erano situate vicinissime le une alle altre) uomini perdevano la vita ogni giorno. E non c'era momento in cui gli scontri cessassero: non avevo idea che il Re confinante (avrei dovuto dire "nemico"? Non ci riuscivo; mi sembrava assurdo, dopo i trascorsi così amichevoli) fosse così determinato nella sua voglia di conquista. Dal canto mio, badavo solo a recuperare la tranquillità perduta, volevo solo riuscire a ricacciare l'altro esercito dall'altra parte per un tempo abbastanza lungo da poter costruire una muraglia, una qualche opera di difesa insomma, che mi permettesse di essere più sicuro nei miei confini. Ho indetto grandi festeggiamenti per riportare un po' di quiete tra le strade, dove regnava solo il sentimento imminente della fine. Il clima di disperazione che c'era andava allentato, ho imbastito partite di caccia, spettacoli dei migliori poeti e teatranti, ho fatto portare le orchestre più rinomate da ogni Regno, mi sono messo perfino io sul palco, a cantare, ballare, recitare. Tutto per far rasserenare l'animo del più umile ciabattino mio suddito.
Poi c'è stato un periodo di tregua, che da durare pochi giorni si andò allungando fino a costituire, per me, una sorta di pace. Con calma, costruii le mie fortificazioni e piazzai un paio di sentinelle sulle mura, ma giusto per vedere che succedeva. Speravo che la cosa sarebbe finita lì; e invece, ecco che dopo un po' si sente uno strombettare dall'altra parte del muro. Per farvela breve, parodiando gli Ebrei sotto le mura di Gerico, gli oltramontani volevano far crollare il muro a suon di pernacchie. Gli abitanti di Conscience la prendono un po' sul ridere però, spernacchia che ti spernacchia, dopo giorni e giorni che diventarono settimane e settimane che diventarono mesi, erano un po' sul punto di perdere la pazienza. Mi arrivò una loro prece e io feci tirare una schioppettata in aria dalle merlature della muraglia, giusto per spaventare un po' gli spernacchiatori. Non l'avessi mai fatto! Era una sottospecie di trappola: l'altro Re ha chiesto aiuto all'Imperatore, quello gli ha fornito un bel cannone grosso che solo a vederlo faceva venire un attacco di dissenteria, e ha buttato giù torri, mura e anche quel bel deposito di armi che avevo fatto fare da un mio valente architetto (sebbene, in verità, quelle armi stessero da qualche mese solo lì a prendere polvere e ad arrugginirsi; anche le sentinelle erano disarmate, per mio espresso ordine). Per fortuna che gli abitanti di Conscience si sono difesi bene, usando forcole e torce, hanno arginato la situazione momentaneamente, finché le truppe non sono arrivate. Altrimenti sarei bell'e spacciato, non starei nemmeno qui a parlare con voi.
Insomma, la situazione è tornata pari pari a prima, con anzi in più quell'enorme cannone che per ora non può sparare: mi hanno riferito che per caricarlo servono parecchi soldi, che vale molto di più di molte vite di soldato, quindi per il momento non verrà usato; ma a me non è che interessi più di tanto la prospettiva che il cannone spari, o che non lo faccia, o che sia io a vincere o l'altro, perché ormai non ha più importanza.
Sono semplicemente stanco. Gli anni sono passati, e come ogni Re non sono riuscito a realizzare neanche la metà di quello che avrei voluto: i ministri continuano ad essere corrotti, i pirati a saccheggiare le navi e i briganti a borseggiare i viaggiatori, il bilancio è in rosso, la grande rete ferroviaria che avrei voluto collegasse ogni centro abitato del Regno è lungi dall'essere completa. Ho fatto qualcosina, ho fatto anche molti sbagli che in gioventù mi sono sembrate scelte giustissime e le cui conseguenze nefaste si vedono solo adesso, a cui saranno i miei successori a dover rimediare. In una cosa credevo di essere riuscito, nella difesa del poco che ho fatto e del molto che i miei predecessori mi hanno lasciato... e invece sono ancora qui con un pugno di mosche, e la guerra continua, la pace non torna, tutti i miei sforzi sono stati inutili.
Chiuso nel mio palazzo, con i consiglieri che continuano a dirmi quello che succede, ho ormai perso il gusto di occuparmi del Regno. Non mi interessa più di quello che succede, non mi interessa di Conscience e della lotta per la supremazia - inutile anche quella! - che prima o poi troverà un vincitore e un perdente, chissà da quale parte, non importa. Il mio vero scacco è il non potermi muovere da qui, l'essere costretto a rincorrere gli eventi, il sentire che tutto mi sfugge dalle mani. Sono una pedina giocata nel gioco di qualcun altro, mi muovo ma non per mia volontà, non ha senso quello che faccio.
A volte, svegliandomi di soprassalto quando la luna è ancora alta nel cielo, penso che potrei sempre ordinare all'esercito di arrendersi. Far cadere uno dopo l'altro i pedoni, gli alfieri, i cavalli, le torri che mi proteggono - che proteggono me? Perché? Che valore ho più di loro? - e infine di consegnarmi, io in persona, a chi di dovere, così, senza corona, senza scettro, il più insignificante e incapace pezzo della scacchiera. Lo penso così, non per perdere la guerra, non perchè so di non poterla vincere – come ogni giorno, la situazione è più stabile che mai – ma solo per farla cessare. Poi penso che se questo sta accadendo veramente, allora tutto sarà scritto su un qualsiasi manuale di storia, sul quale tutti potranno leggere l'esito della contesa, la distruzione o meno del mio Regno, la mia consegna o la mia gloria come sovrano eirenophylax, portatore di pace. Con gioia il mio pensiero va ai posteri: loro avranno disponibili, in comode appendici, il mio nome e l'altro, potranno agevolmente controllare le nostre biografie, controllare a che posto siamo nell'evoluzione dei nostri Regni, se siamo considerati fondatori, epigoni, ultimi sopravvissuti, quali certezze apporterà la nostra vita nella Storia, a quali dubbi darà fiato. Il risultato, insignificante quale sia, sarà scritto, da qualche monaco o da chi o cosa per lui - ho sentito che altrove, in Renania credo, hanno inventato un affare che riproduce la scrittura umana come il telaio l'arte delle filatrici - fra secoli, ma che dico? Decenni, o anni, o mesi, o pochi giorni, o fra poche ore! Già mi sembra di sentire - con una specie di sollievo - gli zoccoli dei cavalli oltremontani che vengono a prendermi, che mi consegnano al già scritto, al già vissuto, che mi ripongono al sicuro dove non ci sono dubbi, ecco invece che sono i miei soliti consiglieri che mi dicono che le trincee sono al loro posto, che oggi abbiamo perso cinque centimetri di Conscience, tutto regolare, li recuperiamo domani, e una banda di criminali è stata sgominata, guardi Sire c'è solo da firmare l'atto di condanna, io neanche lo sto a guardare, firmo con uno scarabocchio che potrebbe assomigliare a una farfalla, a una pera, a un gigante di quelli che si leggono solo nelle fiabe, come questo Regno che esiste solo finché io l'ho pensato e mi ritrae mentre, seduto alla scrivania, esco dallo scacco con uno scatto di fantasia, faccio marameo a chi mi ha incatenato e mi riprendo con una risata la mia dignità.

Dicembre 2009

Postilla

Viene facile, leggendo la data, pensare che è tutta una metafora di mie vicende personali: sbagliato. Questo racconto ha quattro significati ben precisi:

1) politico-sociologico: fate l'amore, non fate la guerra (sarà anche banale, ma vero), e soprattutto non per futili motivi.
2) filosofico-esistenziale: spesso la nostra vita si riempie di impegni che non ci interessano davvero: Vorremmo fuggirli per occuparci dei nostri veri interessi, ma non possiamo perché siamo responsabili nei confronti della società e delle persone a cui siamo legati. Questo ci toglie la libertà e quindi l'interesse per la vita, perché ci fa apparire prive di senso le nostre azioni (c'è anche un significato secondario, cioè che ogni cosa è scritta: tutto ciò che facciamo è registrato, quindi in una prospettiva storica non esiste la volontà).
3) storico: ogni cosa che facciamo è influenzata dal giudizio che su di noi avranno i posteri.
4) meta-letterario: “scrivere una storia” in realtà è trasformare in una storia il proprio vissuto, per passare dal personale all'universale (almeno, io la penso così).

Punto e basta. Dalla “mia” storia ho preso solo lo spunto centrale (la guerra di logoramento e il cannone), tutto il resto è normale sviluppo della fabula.
Tutti gli elementi accessori sono inventati, non sono simbolo di niente di reale. Per esempio il riferimento agli scacchi: mi sembra un'offesa all'intelligenza dei lettori spiegare che mi è venuto perchè, ovviamente, si parlava di due regni in guerra; è un accostamento che sfiora la banalità, e non ci sono sensi nascosti dietro.
Solo occasionalmente qualcosa ha assunto un significato extra-narrativo: per esempio, i “rapporti di buon vicinato” iniziali tra i due Re. La prima stesura recitava “... la situazione era in perfetto equilibrio, tanto che avevo scordato l'esistenza di questo paesino. I rapporti con il Re vicino erano buoni, e tanto mi bastava. Finchè un giorno...”;  poi è diventato un pezzo rodariano: per ridere ho creato un effetto straniante parlando dei Re come di due vicini di casa. Espandendosi, però, è diventato una metafora dei rapporti umani (“coscienza” qui sta per “intelletto”, “Io”, e quindi un Re che va a trovare l'altro significa lo scambio d'idee). Ma non ha senso che stia qui a fare un'esegesi più lunga del racconto.


Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Robetta nuova / 14/02/2011

Niente di che. Però l'ho scritta adesso e ho sentito il bisogno, impellente quanto stupido, di condividerla (ma d'altronde sono anni che non faccio altri che stupidaggini, quindi non è la prima e non sarà l'ultima! ahahah)

Nessun manifesto

Nessun manifesto può significare
ciò che l'uomo vuol dire. La maledizione
nostra più grande e meravigliosa
è l'essere condannati a fare,
sempre, per sempre,
della poesia.

Lun 14 feb 2011

In due parole: fare poesia, nel senso base del termine (quello che uso qui: poi ce ne sono altri milioni) significa caricare le parole di un altro significato, dotarle di un "surplus" semantico. insomma, tentare di esprimere l'inesprimibile usando i mezzi a disposizione (che usano, per loro stessa natura, solo l'esprimibile). Insomma: fare poesia significa essere i McGyver della parola. E con ciò passo e chiudo.

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Life in Erasmus / 13/02/2011

Sto bene, davvero. Non l'avrei mai detto.
Ma ormai ho imparato, finalmente, dopo 23 anni, una regola fondamentale del vivere con me stesso: non devo crearmi troppe aspettative, altrimenti il mio spirito immaginifico crea tante e tante di quelle chimere intorno alla realtà, che per forza quando me la trovo davanti rimango deluso. voglio dire, nessun dolce reale può competere con il gelato dei tuoi sogni, o il paese dove tutto è di cioccolato, etc etc.

Allora, quando è arrivato il momento di partire, ho azzerato del tutto le mie aspettative: mi sono detto "ok, prendila così, sono sei mesi nei quali, male che ti vada, non farai niente. a vivere da solo ci sei non dico abituato, ma quasi; puoi resistere. hai i tuoi progetti letterari/teatrali/cinematografici a cui attendere, avrai un bordello di cose da studiare e per giunta in un'altra lingua, avrai dei viaggi da progettare che non riuscirai a fare, e poi ogni giorno dovrai cucinare, lavare, spazzare, etc etc. dunque, male che ti vada avrai passato sei mesi a imparare il francese e avrai visto un po' di mondo. non può essere una merda totale. ma non ti illudere che vada chissà quanto meglio di così: probabilmente troverai degli altri italiani che stanno là e farai comunella".
Ovviamente, non speravo che succedesse questo; ma ho dovuto farmi un po' di male per pensarlo, altrimenti non avrei combinato niente.
E infatti le cose sono andate al rovescio di quello che avevo previsto: nuovi amici, nuove ricette (gnam!), viaggi che a quanto pare si realizzeranno (tipo a Parigi a fine mese).
Una marea di cose da raccontare, e non so come fare. Dunque ho preso l'abitudine di notare, semplicemente, durante la giornata, delle cose, e di riversarle periodicamente sotto forma di mail agli amici fidati.
Ma perchè no, anche a tutto il mondo! anche se probabilmente tutto il mondo se ne fotte. Beh, siccome me ne fotto anch'io siamo pari, dunque da domani comincio a pubblicare qualche nota alla volta (ne ho accumulate una quarantina)... così tengo in attività il blog nel mentre che scrivo le cose "serie" da pubblicare.

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Bugiardo... e diffidente. (2° tempo) / 14/02/2011

Riprendiamo il discorso da dove l'avevo cominciato però, perchè mi interessava.
Sono un bugiardo, quindi sono anche uno scettico: è naturale, se ci pensate.
Dovrei mettermi a credere ad un libro in cui c'è scritto che un Essere infinitamente buono e potente governa il mondo e nello stesso tempo concedere le guerre, le malattie, i tradimenti, gli omicidi, i furti, eccetera? Ma per piacere.

Io lo vedo, il bene; ce n'è, e anche parecchio. Forse anche di più del male, altrimenti non si spiegherebbe il progresso e non saremmo più qui già da tempo. Posso accettare che il male in questo periodo storico sia superiore al bene, ma non sono pessimista, so che sto facendo del mio meglio per far migliorare il mondo.

Non è la quantità di male che mi interessa, ma la sua esistenza tout court: per questo non posso accettare che Dio sia contemporaneamente sia buono che onnipotente. Io sono personalmente convinto che la verità stia nel mezzo, ma anche che noi non possiamo conoscerla, a mano che...

A meno che, certo, Gesù il Nazareno non avesse ragione, non fosse l'incarnazione di Dio, con tutto quello che ne consegue. Ma quali prove abbiamo come fondamento alla sua testimonianza? Poche davvero, dei resoconti stilati dai suoi seguaci che in alcuni casi hanno esagerato poderosamente fino a fargli assumere le sembianze di una fiaba.

Io comunque resto convinto che quella di Gesù fosse una storia vera. Faccio un atto di fede, un piccolo salto, ma per il resto non sono convinto di niente. Non mi convincono i ragionamenti dei teologi, né quelli degli uomini di chiesa, né quelli delle altre persone di fede. La fides (fiducia) si stipula tra due persone. Ci sono io e c'è Dio: abbiamo fatto un patto. Io ho deciso di credere, punto e basta.

Ma, essendo bugiardo, continuo a vedere bugie ovunque, e a volte il mio patto di fede viene meno, così come periodicamente sospendo la mia fiducia nei confronti di tutti e la critico fino in fondo, per scoprire quanto c'è di onesto e vero nel rapporto, e decidere se mantenerla o no. Una specie di rinnovo del contratto.

Certe volte me ne rendo conto, e non mi piace. Fiducia significa che una volta stipulato il patto, finché uno dei due non lo rompe non si discute: ma non riesco a farci niente. Prima, riuscivo a fidarmi senza problemi: da un po' di tempo ho messo il filo spinato intorno alla mia vita. È come se ci fosse qualcosa, dentro, che devo proteggere ad ogni costo.

Ma a parte questo, penso anche che sia insito nella natura dello scrittore l'essere insieme bugiardo e diffidente, inventore e smascheratore di menzogne, ladro e spia: il suo obiettivo è raccontare la verità travestendola della bugia più stupenda, e nello stesso tempo far pensare al lettore che tutte le cose scritte dagli altri sono solo fesserie.

Ragazzi, come godo a fare questi paragoni. Mi sento un po' Nietzsche (ma meno pazzo. O forse no).

À bientôt!
Grillo Sognatore

Repost: Bugiardo... e diffidente / 11/02/2011

“It's no secret a liar won't believe anyone else”
(U2 – The fly, dall'album Achtung baby, 1991)

“Non è un mistero che un bugiardo non creda a nessuno.”

Ecco spiegato il perchè del mio scetticismo innato: sono uno scrittore, quindi un bugiardo per definizione.

Chiariamo una cosa: non esiste scritto che non sia falsificato. Uno può scrivere anche tutta la verità sui fatti, eppure tacere sui suoi sentimenti. Resta un bugiardo. E io non faccio eccezione: anche quando mi propongo di essere completamente sincero, non riesco a non notare come in ogni cosa che scrivo un pezzetto della verità venga meno. Allora mi metto a riscrivere, cancello, modifico, integro ma alla fine manca sempre qualcosa. Un particolare che vorrei mi servisse per completare il quadro è completamente incongruo in una certa posizione: decido allora di spostarlo altrove. Cos'è questa, se non una falsificazione? Il lettore verrà comunque a conoscenza di quel dettaglio, ma nel modo e nei tempi in cui l'ho deciso io. É verità, ma parziale, strumentalizzata, rimodellata. Una bugia, né più né meno.
   
Pazienza, di meglio non so fare. Io ho in testa un'idea ben precisa della verità: la verità è “l'accaduto”, ovvero ciò che sono riuscito a registrare io dell'accaduto con i miei sensi, più quello che hanno registrato altre persone (quante più riesco a sentirne, meglio è), più le congetture mie e di queste persone, più la mia conoscenza dei fatti pregressi, più (quando è possibile) dei documenti che comprovino qualcosa. La “verità giudiziale” se vogliamo chiamarla così. Una verità in cui io sono il giudice costretto a fare pesanti intermediazioni tra lo schema mentale di accusa e difesa (sui cui banchi, ora in una veste ora nell'altra, ci sono sempre io: è un conflitto di interessi senza fine).

Insomma, una verità impossibile da determinare in maniera assoluta, ma sempre ricorrendo a circostanze, attenuanti o aggravanti, pregiudizi, idee prese in prestito da chi – suppongo – ne sa più di me su un tale argomento. Per cui accetto serenamente che sarò sempre costretto a dire una bugia sopra l'altra, a falsificare l'accaduto facendolo diventare un flashback, un ricordo, un dialogo, una supposizione, anche quando così non era (è il motivo per cui mi riesce così facile scrivere apologhi, cioè trasformare in fatti i pensieri, o gli episodi reali della mia vita in fatti immaginifici, ambientati in altre epoche, in altri contesti, in realtà alternative).

Questo non vuol dire che ogni volta che affermo “sarò sincero” il lettore debba mettersi in attesa della prossima macchinazione che effettuerò contro la realtà. Al contrario: se dico di essere sincero, provo sempre ad esserlo (sempre nei limiti descritti prima). Di solito avviso, quando mento, e lo faccio in maniera plateale: quando metto in bocca a personaggi inventati delle frasi vere, la prima cosa che faccio è di dare a questi personaggi dettagli che ne smascherano subito la finzione: date e luoghi di nascita o di incontro (con me, di solito) simbolici, punti di riferimento parodistici, anagrammi come nomi, eccetera. Però poi si passa al sodo e i miei personaggi cessano di essere macchiette per diventare persone che parlano di Dio, della morte, o del tradimento: da dove vengono queste frasi, questi dialoghi? La maggior parte è reale, solo resa in maniera più mossa, per far venire voglia al lettore di continuare; ma il loro contenuto è reale, per quanto me lo possano consentire i miei sensi.

Se sono sincero, di solito non dico niente e parlo di quello che ho in mente, così come ce l'ho in mente, senza modificarlo troppo, mantenendo a volte anche gli errori di grammatica e sintassi; ci aggiungo giusto qualche dettaglio per chi magari non dovesse conoscerlo. È il metodo migliore che ho trovato, finora, per “dire la verità”.

Ci sono ovviamente diversi gradi: il migliore è quello in cui, dopo essere riuscito a scrivere una prima versione assolutamente sincera, scritta di getto con tutto quello che avevo da dire in disordine, riesco con tagli e correzioni a renderla leggibile e stilisticamente coerente, cercando di eliminare meno dettagli possibili. È il modo in cui, per esempio, scrivo gran parte dei miei interventi sul blog, che di solito sono sempre scritti offline e poi riversati online. Lì la gente deve poter capire subito chi sta parlando, di cosa e perchè, e non di rado mi capita di dover aggiungere spiegazioni vere e proprie, perchè il fatto non sia frainteso. Ma queste spiegazioni sono quasi sempre introdotte in modo che si capisca che sono postille, aggiunte al fatto e non ne fanno parte. Non mi piace che il lettore pensi che voglio dargli spintarelle nella “mia” direzione, non quando parlo di fatti veri. Io spiego ed è logico che abbia una mia idea, ma la espongo esplicitamente e senza farmi schermo di fatti manipolati.

Quando racconto una storia è diverso: lì tutto è argilla nelle mie mani, e se per esempio scelgo di raccontare un fatto vero in maniera romanzata avviso che non tutto è corrispondente alla verità. Nel caso degli apologhi, poi, non pretendo affatto di dire la verità: mescolo avvenimenti diversi, purchè moralmente simili, anche riferiti a persone diverse, mettendomi anche dalla parte del bersaglio: spesso le caratteristiche negative di questo o quel cattivo sono prese anche da me, da quello che io ho fatto o detto. Per esempio la storia di “Scapolo”: nel personaggio principale ci sono soprattutto io, ma in quelli negativi (Anna e William) non c'è un modello solo. A proposito, se volete sapere come sta andando avanti, per ora è sospesa perchè sto lavorando a D'amore e d'altre cose. Ma ogni tanto prendo qualche appunto.

Piuttosto, ho cominciato un libro tutto nuovo, sul tipo de Le città invisibili: cioè, non c'entra niente, solo il principio di base è simile. Si intitola Sognava: è un catalogo dei sogni. Non c'è una successione, è un libro che, proprio come quello di Calvino, si può aprire in qualunque punto.

Come sempre, ho cominciato parlando di qualcosa e ho finito in maniera diversa... ma non sono capace ad essere troppo coerente, lo sapete!

À bientôt!
Grillo Sognatore

Repost: Le licenze poetiche, postilla / 19/11/2010

Postilla: Dove finisce la licenza poetica (e comincia il buon governo)

Bene, mi sono divertito ad essere un po' estremista, ma bisogna anche riportare le idee in un quadro più realistico: come in ogni cosa, anche qui va introdotta una misura del “giusto mezzo”. L'uso che della lingua fanno i parlanti è spesso improprio anche per un normale scarto: è solo il risultato dell'ignoranza. É, diciamo, come se ognuno dovesse crearne una propria riempiendo i vuoti della propria educazione. Bene, giusto: così si creano le varianti. Poi però sta a noi scegliere, consapevolmente, quali di queste far diventare “licenze” (e, in futuro, regole e nuovi vocaboli), e quali invece correggere come errori. Una regola non esiste, per fortuna: si tratta semplicemente di scegliere, collettivamente, come “intelletto nazionale” per così dire, in che direzione vogliamo andare. Vogliamo una lingua superficiale*, attenta ai fenomeni così come si presentano? Bene, allora la infarciremo di slang e parole straniere, e aboliremo il congiuntivo, perchè quello che conta è l'immediatezza, il poter dire quella stessa parola in ogni angolo del globo e capirsi. Quindi computer, network, LOL, eccetera. Vogliamo invece una lingua più nazionalista, etimologicamente profonda, che costruisca un sistema di pensiero coerente? Benissimo, allora latinismi, regole rigide, consecutio temporum perchè sia ben chiaro il nesso tra un anello del ragionamento e il successivo.

Non c'è una scelta giusta o sbagliata in linea di principio: l'importante è accrescere la consapevolezza. Io sono convinto che, in quest'epoca di crescente democrazia (cioè in cui il potere viene dato alla massa, ai milioni di persone, costretti ad agire come uno solo), non possiamo più permetterci di essere ignoranti. Dobbiamo essere sempre più coscienti di quello che facciamo, ad ogni livello, dall'alimentazione al voto, e aggregarci in reti che ci permettano di comunicare sempre meglio, per poter fare collettivamente le scelte giuste, che non ci danneggiano: per questo la lingua che ci serve non è quella accademica e ridondante delle Università, ma non può nemmeno essere quella semplificata e rimbecillita degli sms, dei blog adolescenziali, dei social network pieni di gente egocentrica che afferma il proprio uso della lingua su quello degli altri: dobbiamo essere flessibili, accogliere nuovi vocaboli e mettere in soffitta altri, sopprimere alcune regole della nostra grammatica e crearne di nuove, ma tutto sapendo cosa si fa e perchè lo si fa, senza cedere all'istinto facile di seguire l'onda o di mettersi a pecora per la tradizione. Se riusciremo a vincere questa sfida (ma è una sfida infinita, che si dovrà combattere giorno per giorno, senza fine), potremo governare sempre meglio noi stessi e il nostro pianeta, e magari evitare di autodistruggerci (prospettiva che ahimè vedo sempre probabile).

Alla prossima
Grillo Sognatore

*attenzione: "superficiale" qui non è usato in senso dispregiativo; l'ho inteso come lo intende Alessandro Baricco nel suo saggio I barbari: che bada alla superficie, al multitasking, all'interconnessione tra i fenomeni e non alla ricerca della radice di un singolo fenomeno. è il dilemma che da sempre si pone tra la rete e la trivella: l'una avvolge il mondo e cerca di abbracciarlo trasversalmente, l'altra lo penetra fino al cuore per scoprirne l'essenza. Due modi ugualmente legittimi di fare filosofia.

Repost: Le licenze poetiche, parte II / 16/11/2010

Parte II: Verba volant, scripta manent.

È proprio questo il problema: fissati con quest'idea dell'immortalità delle opere scritte, poco alla volta abbiamo ceduto, anche noi borghesi/proletari, all'idea aristocratica della cultura che si basa sull'erudizione. Da qui la (ri)nascita dell'etimologia e della grammatica come ricerca del “giusto significato” e della “giusta regola” da seguire nella composizione di un testo. Ma per piacere. Ci rendiamo conto di dove ci sta portando tutto questo? Lavorando un po' in biblioteca sono riuscito a farmi un'idea: esistono migliaia di libri scritti per commentare altri libri, e in molti casi anche per commentare dei commenti altrui! Una specie di “social network” retorico che soffoca il valore delle opere letterarie in due modi: 1) rendendo ogni testo un insieme di informazioni da estrarre in qualsiasi modo (secondo analisi quantitative, anche: in che percentuale Dante ha usato i pronomi personali? E quanti aggettivi ci sono, in media, in una frase di Buzzati? Eccetera) e 2) scrivendoci sopra tante di quelle opere di commento da rendere impossibile la lettura a chiunque non abbia studiato, prima, almeno una manciata di quei saggi. Oddio!

Riuscite a immaginare che cosa deve aver letto o studiato qualcuno per poter fare un'affermazione qualsiasi su Italo Calvino, per esempio? Ve lo dico io: perlomeno dieci saggi. E Calvino è morto una ventina di anni fa! Come dire che uno non si può leggere in santa pace nemmeno le opere dei suoi contemporanei. Ora, questo circolo vizioso ci sta portando a creare una “sovrastruttura” intellettuale così forte da soffocare il testo vero e proprio. Che cosa c'entra con il discorso principale, direte.

Anche nella letteratura ci stavamo riducendo così. Eravamo arrivati a non concepire più un testo se non come “ben formato”, se non come rispondente alla grammatica. Poi per fortuna è arrivato il neorealismo! E con il neorealismo le avanguardie di ogni genere, e con la spinta delle avanguardie piano piano il “parlato” si è infiltrato nello scritto.
Chiariamoci: che c'è di male? È semplicemente l'evoluzione di una lingua! Perchè il latino è morto? Perchè coloro che lo insegnavano e che lo scrivevano si hanno voluto conservarlo per secoli in una teca di vetro, perfetto e immutabile, mentre la gente continuava a inserirci
variazioni di ogni tipo, fonetico, morfologico e sintattico. Alla fine i predicatori – quelli con la vista più lunga – si erano accorti che nessuno capiva un sermone in latino e hanno cominciato a fare le prediche in volgare. Così sono nate le lingue neolatine (letterariamente parlando, intendo), e nessuno adesso si sogna di dire che questo sia stato un “assassinio” del latino! Stessa cosa sta succedendo alle lingue neolatine adesso – e, vorrei dire per inciso, stessa cosa è successa e succederà a tutte le lingue finchè esisterà il linguaggio naturale: lo stesso latino ha assorbito parole e regole provenienti da tutte le lingue italiche, mano a mano che ne conquistava i popoli – e opporsi in nome dell'uniformità capitalistica non farà altro che accelerare il processo di insofferenza della gente. Che comincerà a corrodere le regole dall'interno: e poco alla volta a creare una nuova lingua.

Sia chiaro: a me l'italiano “standard”, quello “corretto” (con il congiuntivo eccetera) piace, lo uso perchè mi piace il suo suono, la sua scorrevolezza; per motivi estetici, e perchè, dopo aver studiato e letto così tanto libri scritti in quella maniera, mi viene abbastanza spontaneo tutto sommato. Ma questo non vuol dire che non senta addosso il peso di questa costrizione. Per cui sperimento, innovo, o scelgo tra le innovazioni che vedo (è il caso di “affianco”): ho bisogno di farlo. E non perchè sia cretino io: è il bisogno innato di ogni parlante di innovare la propria lingua, di rendere cioè adatto alla propria mente, unica e inimitabile, una struttura che pretende di essere universale e “portabile”, usabile da chiunque.

Il linguaggio ha questa pretesa, ma è ovvio che è un'utopia, come la democrazia perfetta: ogni sistema di segni ha bisogno, per esistere, di avere un interpretante, qualcuno che associa un significato al segno. E questo qualcuno non potrà mai avere una visione esattamente identica
agli altri: differirà magari in una virgola, in una minuzia – in una preposizione o in un aggettivo – dal “resto” dei parlanti, ognuno dei quali differirà dal proprio “resto”.

Così, lentamente, le lingue si evolvono, nascono, crescono e muoiono (per così dire) con noi. E per questo continuerò a dire “affianco”, come ogni tanto salterò un congiuntivo quando non ci sta (dovevo dire “ci starà”, vero?), per questo continuerò a sperimentare ed evolvere il mio modo di esprimermi, per raggiungere l'equilibrio giusto per il mio tempo (ben sapendo, ahimè, che è transitorio: e chi mi leggerà fra cinquanta o sessant'anni non potrà che ridere del mio stile).

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Le licenze poetiche - Parte I / 12/11/2010

[Lettori affezionati e non! Vi avevo promesso questo mini-saggio sulle licenze poetiche ed ora lo pubblico, sperando che sia di vostro gradimento. L'ho scritto in questa primavera.]

Le licenze poetiche

Parte I: Un breve excursus storico

Un po' di tempo fa rimuginavo su una cosa che mi fece notare una persona molto acuta: che cioè scrivevo sempre “affianco” e non “a fianco”. Non fraintendete: non è che fosse diventata la mia nevrosi principale. È che mi ha fatto pensare che effettivamente facevo quest'errore da anni, senza che nessuno me lo facesse notare. Lì per lì non ci volevo credere, tornato a casa ho controllato sullo Zanichelli ed effettivamente si, “affianco” non esiste.

“Ma come” ho pensato, “suona così bene! Possibile che ogni volta adesso dovrò scrivere “a fianco” anche se spezza il ritmo della frase, del verso se in poesia - perchè ho scoperto con orrore che l'avevo scritto anche in alcune poesie - ? Scritto staccato suona così formale!”

E così, in un primo momento, mi sono messo a riscrivere tutte le poesie in cui c'era “affianco”. Una volta corrette, però, mi facevano proprio schifo! Ho deciso allora di lasciarle scritte sbagliate, come questa frase, perchè si. Perchè mi sono ricordato che esistono le licenze poetiche, solo che questa espressione mi aveva sempre dato fastidio e l'avevo auto-censurata dal mio vocabolario.

Che cos'è, o meglio cos'era in origine una licenza poetica? Una deroga alle regole grammaticali per cui un poeta, per rispettare la metrica, si vedeva costretto ad usare un plurale al posto del singolare o viceversa, e un presente al posto del passato remoto, o ad accorciare o allungare una parola di una sillaba, e mille altre stronzate del genere.

Questo quando scrivevano quei fissati dei Greci e dei Romani, che avevano inventato mille tipi di versi dove quello che contava era la durata della sillaba, solo perchè quei disgraziati autori dei poemi omerici non potevano scrivere e facevano così per buttare giù a memoria
tutti quei versi. I Latini, da bravi copioni, avevano continuato a fare questo tipo di poesia per cui, se una parola non andava in un verso, la dovevi tagliare o storpiare in qualche modo. Ragazzi, quelle si che erano licenze! Ve lo immaginate se noi, adesso, dovessimo scrivere in un tema “ieri mangerò una torta”? Giù insufficienze a manetta. E già ci impiccano per un congiuntivo mancato!

Quando i Romani andarono a farsi benedire per colpa della loro politica fiscale “creativa” e perchè non riuscivano a tenere al governo uno per più di un anno (vi ricorda qualcosa?), gli scrittori medievali, ancora convinti che la latinità fosse il non plus ultra, continuarono
per un po' a fare questi esercizi di funambolismo (e soprattutto di bilinguismo: parlavano in una lingua e scrivevano in un'altra), finchè non ci si stancò e si cominciò a scrivere ognuno nella propria lingua. Le licenze poetiche diventarono sempre meno tollerate, perchè si affermò la divisione degli stili (alto, mediano e basso) che prevedeva anche la divisione del lessico: in pratica, c'erano parole tabù se qualcuno doveva scrivere una tragedia, una poesia d'amore, una novella, o “tipi di frase” tabù, insomma non si poteva sgarrare. Fu l'ultimo periodo d'oro della retorica, spostata dall'ambito giudiziario in quello letterario: sbucarono come funghi trattati e trattatelli su “come scrivere”, pieni di regole rigidissime che se non rispettate rendevano un testo “brutto”. Tutto era sorvegliatissimo: ed era normale che, dopo qualche secolo, qualcuno si stancasse. Arrivò il Seicento e Giambattista Marino disse: “del poeta è il fin la meraviglia”. Tutti i poeti dovevano stupire! Le regole allora cominciarono a stare strette, ma ancora non si poteva disfarle (s'era in un tempo di monarchie assolute, non dimenticatelo), quindi si cominciò a corroderle dall'interno: nel volgere di qualche secolo, la metrica andò a farsi benedire e tutti pensarono “adesso siamo liberi”.

Magari! Quello che i retori avevano mollato, se lo ripresero i grammatici: ed ecco nascere le grammatiche normative, quelle cioè che usiamo adesso a scuola. Perchè? Perchè nel frattempo il crescente sistema capitalista aveva imposto il livellamento della lingua. Serviva che tutti parlassero, e scrivessero, nella stessa maniera, per poter essere “intercambiabili”. Il consolidamento degli Stati nazionali ha fatto il resto: e adesso, guai appunto a sgarrare un congiuntivo!

La licenza poetica, però, va rivalutata. A parte che adesso è largamente praticata, nel senso che non esiste nessuno scritto che non ceda alle cosiddette “influenze del parlato”: il problema non è questo. È che consideriamo ancora il parlato inferiore allo scritto, qui sbagliamo. E da qui riprendiamo il discorso la prossima volta.

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Esame da "fare"? (+ involontaria recensione: Vladimir Nabokov, "Fuoco pallido") / 19/09/2010

Teoria della letteratura è un esame che NON vuole proprio essere studiato. Non è colpa mia, spiecente, è che è troppo leggero per essere un esame: pieno di romanzi e racconti, solo una cinquantina di pagine di saggi... come posso divorare mezza bibliografia di Nabokov in tre giorni? Nabokov richiede una vita di impegno, dedizione, pazienza, lettura e rilettura
certosina...
Nabokov (quello di Lolita, per intenderci) è un genio. Un G-E-N-I-O (badate che ho sempre odiato quelli che scrivono così, tipo è IN-CRE-DI-BI-LE per sembrare più americani come scrittori, per dare il senso di quelle pronunce di avverbi e aggettivi inglesi che loro sillabano in maniera, francamente, ridicola. l'ho sempre odiato e infatti quella parola non va letta così: l'ho solo evidenziata per farvela leggere meglio. chiusa parentesi).
Dico, un genio. Uno che non aveva paura di niente nella sua vita: intellettualmente, intendo. Uno che oltre a scrivere dei romanzi fantasticamente anti-romanzeschi, in bilico tra il bordo della pagina e quello della realtà, faceva l'entomologo, di professione. Giuro. Lui raccoglieva farfalle e le catalogava, ne ha scoperto perfino una specie nuova, l'Euphytecia nabokovi. Non ci si può credere.
E io per l'esame, entro domani, devo leggere una metà dei suoi racconti e un libro di sue interviste, oltre che rileggere Lolita e altri due romanzi (Fuoco pallido e La vera vita di Sebastian Knight) semplicemente incredibili. E non uso la parola a sproposito: dico incredibili perchè non si riesce a credere (soprattutto per Fuoco pallido) che qualcuno abbia scritto un romanzo in quella maniera. Mi spiego.
Fuoco pallido non è un romanzo in senso stretto. E' un poema in quattro canti, con relativo commento in fondo, con note strutturate esattamente come quelle dei libri di poesia in cui non si è voluto metterle a piè di pagina. In pratica voi, se non conoscete l'autore, saltate elegantemente la Prefazione, vi leggete il poema (lungo esattamente 30 pagine nell'edizione Adelphi) e pensate: embè? 'Sti quattro canti parlano della vita di questo tizio, dei suoi pensieri filosofici, eccetera. E io adesso mi dovrei leggere 240 pagine di "note" per capire che cosa?
Qui c'è il bello. Le note in fondo al poema sono il romanzo. Quelle note sono state scritte da uno che praticamente ha fregato il poema all'autore poco prima che morisse, e che ora lo sta commentando travisando completamente le sue intenzioni. Si tratta di Charles Kinbote, uno studioso della stessa università in cui insegnava John Shade (il suddetto autore), che è convinto che quel poema tratti della sua vita e di Zembla, la sua patria (paese fittizio che s'immagina sia nel Nord Europa). Kinbote è in esilio negli USA, è andato a insegnare lì e da vicino di casa degli Shade ha sviluppato una specie di monomania che gli fa credere che il povero John sia interessato alla sua storia tanto da scriverci un poema. Lo pedina, lo spia dalla sua casa, cerca in ogni modo di leggere lo scritto e quando ci riesce finalmente... vabbè non vi dico il finale.
Ma anche se ve lo dicessi (tanto lo dice Kinbote stesso nelle primissime righe, nella sua Prefazione che - a questo punto capite perchè non va saltata - è fittizia pure quella, fa parte del romanzo eccome!) non vi avrei svelato niente. Perchè questo Kinbote - che non si capisce se sia chi dice di essere (e che non vi dirò) oppure un pazzo, oppure uno che era sano all'inizio e impazzisce gradualmente - è uno studioso da strapazzo che l'autore vero, Nabokov, si diverte tantissimo a prendere in giro, questa è la vera storia, e non potrei riassumerla neanche se volessi, peerchè è impossibile.
Quindi ricapitolando: Fuoco pallido è la storia, raccontata tramite il commento a un poemetto autobiografico in quattro canti di John Shade, di un travisamento, di un esilio, di una nazione in rivolta, di una mania, di un assassinio, di tante altre cose che sembrerebbe impossibile raccontare in questa maniera. E invece V.N. ce la fa, e ce la fa benissimo, e in mezzo ci mette di tutto, dalle considerazioni sull'aldilà alla storia di un suicidio, intrecciando la storia di Shade con quella di Kinbote con quella della figlia di Shade con quella di Jakob Gradus con quella della moglie di Shade e quella di numerosi Zemblani che in un modo o nell'altro entrano nelle note, senza azzeccarci una cippa di quello che il povero Shade voleva dire.
Una storia favolosa (anche questa parola non è usata a sproposito: voglio proprio dire che sembra una favola, tant'è irreale, ma raccontata così bene che uno se la sciroppa fino alla fine!).
Senza volerlo ho scritto una recensione al libro, e in realtà non mi è neanche piaciuto così tanto! Voglio dire, se dovessi scegliere, ancora più di Fuoco pallido e di Lolita, direi che il mio preferito finora è La vera vita di Sebastian Knight, che merita di essere recensito a parte perchè troppo, troppo, troppo bello.
Altro che Moccia, altro che Stieg Larsson*!

Beh, dopo questa involontaria recensione (che doveva solo essere uno sfogo per il poco studio pre-esame), vi saluto.

Alla prossima!

*preciso di essere un grande fan del buonanima Larsson, solo che anche se fosse vissuto altri cent'anni non avrebbe raggiunto un'unghia di Nabokov. Di Moccia, invece, NON sono affatto fan e anzi gradirei vedere al rogo la sua produzione letteraria.

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Ritorno dalle vacanze in grande stile! / 13-09-2010

Non riesco assolutamente a raccontare tutte le cose che sono successe in quest'estate, dovrei scrivere per delle ore forse, e adesso è già mezzanotte e domani mi aspetta una luuuuunga giornata di studio pre-esame. Penso (spero) che post-esame riuscirò a razionalizzare il tutto e a descriverlo in quattro o cinque post.

Comunque, preventivamente, ringrazio tutti quelli che hanno contribuito a renderla un'estate mitica (in primis gli scout che quest'anno mi hanno dato proprio un sacco di soddisfazioni) e per riprendere degnamente vi propongo una mia minimicroriflessione nata in treno, che ho segnato sul mio cellulare (anche questo è un tema sul quale mi soffermerò appena possibile).

In treno

Vorrei cerchiare una parola e dire: ecco, questo sei tu, questo significhi. E poi andare avanti, una per volta, e poter dire alla fine: vi ho prese, siete mie, siete qui (toccando con l'indice la fronte).
Non che non ci abbia provato: ma appena cerchiate, le parole non stavano bene nella loro gabbia, avevano sempre bisogno di altre parole per essere definite, ed ecco che dovevo affrettarmi per fare cerchi su cerchi, alcuni concentrici, altri compenetranti, altri ancora collegati ad altri da una fitta rete di linee e freccie bilaterali... ecco che mi ritrovavo al punto di partenza. Oppure altre che tutto sommato stavano tranquille lì senza essere troppo toccate da questo caos di riferimenti incrociati, dopo un po' avevano voglia di evadere dal cerchio che avevo tracciato ed entrare in quello di un'altra parola. Si caricavano di significati inattesi, solo per il fatto di essere state rinchiuse; se mi fossi stato fermo forse non avrei peggiorato così tanto la situazione.
E allora ci ho rinunciato, mille volte. Ma ogni tanto, di soppiatto, durante lo studio di una dispensa universitaria, durante la lettura di un romanzo, quando non mi vede nessuno, quando mi sento assolutamente sicuro di quello che sto facendo, prendo una matita di quelle morbide
(quelle che si cancellano più facilmente) e, con circospezione, traccio una linea intorno a una parola.

08/09/2010

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Scrivere / 16-06-2010

[Questa è la rielaborazione di un commento fatto su facebook un po' di tempo fa ad una mia amica. mi è piaciuto molto come riflessione, e ho pensato di postarlo anche qui]

Scrivere è essenzialmente esercizio, lavoro sulla propria espressione. E intendo "lavoro" in senso stretto: cioè, che prima che qualcosa ti piaccia la devi riscrivere e ri-riscrivere, e rivedere e rimaneggiare, e spostare le varie parti altrove, e riassemblare eccetera.
Si parte da una base, che è la sensibilità personale, e poi si va avanti come per qualsiasi cosa: facendosi un mazzo così. Però almeno i risultati si vedono subito! E sono soddisfacenti: solo gli emo o i bimbiminchia possono pensare che l'espressione "emotiva", quella immediata, sia la migliore.
L'emozione è un bellissimo balbettio, ma la letteratura è impegno, costruzione di un codice comunicativo, di un canale per così dire in cui autore e lettore si incontrano in uno spazio intermedio (una specie di chat intellettuale).
Se riesci a visualizzare quest'immagine, a pensare che vuoi raggiungere qualcuno "a metà strada" tra la sua e la tua vita, ti si crea anche in testa un ideale di stile da raggiungere, diverso di volta in volta, a seconda del tipo di testo (poesia, prosa, teatro), del contenuto (politico, amoroso, giocoso etc), del destinatario e del lettore (che non necessariamente coincidono). Come una partita a carte in cui hai a disposizione milioni di mazzi diversi dai quali pescare... l'espressione immediata, il balbettio emotivo, è solo il primo gradino di una scala che potenzialmente si estende all'infinito.

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Il Nulla, l'Idea / 04-06-2010

Oggi ho in mente soprattutto il Nulla.
Il Nulla, diciamo, è confortante: sai che da quello non puoi aspettarti nulla, e nulla ti succederà. Ha il fascino dell'immobilità.
Strano pensarlo per me, che di immobile - mentalmente parlando - non ho proprio niente. E infatti, resomi conto che sto pensando al Nulla, già sto facendo qualcosa per descriverlo, gli appioppo aggettivi, ci metto delle aspettative (anche se in negativo, sempre aspettative sono), e alla fine voilà, non è più un Nulla, è diventato un Qualcosa. Che cosa? Boh!
Però di certo non è Nulla.

E' un'Idea, ecco che cos'è.
Perdonate la maiuscola: viene da associarla a Platone, ma non intendevo quelle robe che stanno nell'Iperuranio e si aspettano che noi le raggiungiamo un po' alla volta. Per Idea intendo una "idea" che non si è ancora concretizzata, neanche visualizzata:

<<toh, ho avuto un'Idea>>
<<di che?>>
<<boh! però è un'Idea. Ho pensato che vorrei far diventare qualcosa che non c'è>>

Questa è l'Idea: il bisogno primordiale di concretizzare qualcosa di ancora non esistente, possibile, pensato o pensabile.
Ecco, stasera mi sento così. Apparentemente, in testa ho il Nulla; ma in realtà ho un'Idea che mi gira in testa e non riesce a concretizzarsi.

Alla prossima
Grillo "filosofo" Sognatore

Repost: Referto / 29-04-2010

Torno alla poesia, in una sera in cui mi sento politicamente incazzatissimo, per proporvi una delle tre o quattro poesie che ho scartato dalla raccolta, abbastanza estranea a tutto il resto perchè appunto è l'unica che parla di politica: non che non mi fosse riuscita bene, ma non c'azzeccava proprio niente e quindi non l'ho messa. le altre le posterò, ma con calma: perchè parlano d'amore, e sono ancora più tristi di quelle "scapoliane" o morali (dato che almeno quelle avevano un referente, pur idealizzato e gereralizzato, mentre queste si rivolgono al nulla); voglio trovarmi in una situazione un po' migliore, prima di renderle pubbliche.

Tornando a questa, è stata scritta in un momento grigio e di nessuna importanza (una delle tante crisi del "governo" Prodi), e proprio per questo ha una carica per così dire rivoluzionaria, ma estremamente pessimista e nichilista. Perchè? Mi sono chiesto più volte perchè ultimamente (ed è stato un processo, come per la quesione artistica, accelerato e non provocato dalla situazione personale) sono così pessimista. Voglio dire, lo sono sempre stato; ma così, in maniera così accesa, così personale, mai. Ogni attacco alla morale mi offende, anche se sono comportamenti accettati dalla più parte, anche se non provocano danni visibili immediatamente: non ci posso fare niente. La risposta - abbastanza provvisoria - che mi sono dato è stata quella che sono rimasto troppo a lungo inattivo, ed ora mi sento costretto tra scelte che altri stanno facendo per me. Non mi soddisfa completamente, so che una parte della colpa è mia - la mia stessa inattività è stata una scelta colpevole - ma non so che farci. A
parte entrare in politica direttamente, non vedo altri sbocchi. E in politica non ci vorrei entrare, almeno non a breve termine: sono impreparato e se pure riuscissi ad entrarci sarei uno schifo di politico, per cui mi odierei.
Quindi non so che fare: per ora sono tornato ad interessarmi alla cosiddetta "politica", ad ascoltare le notizie (non in televisione, ovviamente: sui giornali, sul web, alla radio), a farmi un'idea, a chiedere ragione dei comportamenti, a domandarmi come sarà il futuro. Mi interessa il progetto delle Liste a 5 stelle, non adoro Grillo ma quello che sta nascendo per suo tramite è una rete di cittadini che poco alla volta diventano più consapevoli dei problemi della loro città: mi chiedo se non sia una possibile buona strada per la formazione di una futura "classe dirigente" (dio quanto odio quest'espressione!) più disinteressata e attenta ai problemi strutturali del vivere cittadino, primo passo per la conoscenza di quelli nazionali... si, questo mi interessa. ma non riesco a vederlo neanche come un punto di partenza: mi sembra una "presupposto" per la partenza. Quello che ci vorrebbe è un Partito Repubblicano, non mi fraintendete: come quello storico di Mazzini, laico, progressista, democratico ed europeo.
Ma sono uscito un po' dal seminato: dovevo solo scrivere due righe per la poesia e invece... beh, comunque eccovela.

Referto

Chiedono giustizia, là fuori. Anime belle
forti di un passato che, dicono, hanno ereditato.
Non dico – sarebbe amaro – di ciò che chiedono.
Più importante è sapere ciò che è successo.
Tutti continuano ad urlare che la sua imene
è stata squarciata, insozzata. Che la sua faccia
pestata a sangue non si riconosce. Io credo
che sia un puro caso di violenza familiare:
figli e nipoti, scontenti, l’hanno aggredita
a colpi di carta e manganello. Il segno inconsueto
di un pallone mostra chiaramente i segni
della violenza. Un televisore acceso nell’angolo
e lo scotch sulle palpebre dimostrano che da tempo
era sottoposta a violenza psicologica. La vittima
è stata spogliata, derubata, legata e frustata
da chi la conosceva. Non si sono nemmeno curati
di cancellare le impronte digitali. Non c’è un luogo
di lei che non sia stato palpato e svuotato; non sappiamo
ancora se sia morta da sola o per i colpi inferti.
La folla continua a chiamare giustizia. Non li sento
ma capisco che chiedono un colpevole. Ho paura
di rivelare la verità. Che questi siano bestie
è poco ma sicuro; ma quello che più stupisce
è di come si siano accaniti su di lei anche dopo morta.

Sabato 17 novembre 2007

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Partita doppia (poesia) / 15-04-2010

Partita doppia

Con o senza: nessuno scarto
significativo, nessuna differenza.
Le colonne riportano in fine
sempre un divario. Se questo sia poi
più o meno evidente, poco importa,
la libertà non si misura e se pure
ci provi ottieni fumo. La matematica
non esiste, o gioca a farlo
ma senza speranza: e qui sta la gioia
del poeta… che senza volerlo
si trova al centro del mondo e non sa
che strumenti usare, a che metro
comparare l'universo! E gli rimane
il suo riso, la sua voce, il canto
che leva alle stelle, quasi un delirio
con una speranza incastonata, gemma
piccola splendente che forse
è il segreto della luce. Canta
e prova a vivere un'altra volta.

Giovedì 12 novembre 2009

Una delle cose di cui vado orgoglioso. Come indica anche il titolo, l'ho scritta insieme a quell'apologo che ho pubblicato un po' di tempo fa. Li ho proprio scritti insieme, nel senso che l'uno ha ispirato l'altra e viceversa, solo che poi questa poesia ha preso una strada tutta sua che è quella della riflessione metapoetica, e per questo è infinitamente più bella del raccontino, che alla fine lascia il tempo che trova.
Anche il significato della prima parte, quella che riprende più apertamente l'apologo, è quasi antitetico: quanto quello esaltava il valore della perdita, cioè della perdita proprio di quella particolare cosa (non della perdita in generale, che è un tema che bisognerebbe affrontare in tutt'altra maniera), tanto questa dice che alla fine, è impossibile che non ci sia un divario tra le due colonne (dare e avere), ed è questo che determina la libertà dell'uomo (detta così sembra un po' sibillina, ma volevo dire: "la libertà nel senso che l'uomo è libero di scegliere se dare anche senza avere o no, cioè se agire o no in maniera gratuita"). La matematica dei sentimenti non esiste, o fa finta di esistere: è qui che il poeta trova spazio, e quasi a suo dispetto deve creare la "scienza dell'esistenza". Qui poeta sta anche per "filosofo". L'ultima parte è una ripresa di Montale, da "Mediterraneo" ("... il tuo delirio/sale alle stelle ormai"), e il finale si chiude sul fatto che cantare (poetare) significa rinascere, rivalutare globalmente le proprie esperienze per dare loro un senso che
permetta di andare avanti.
Questo è stato l'atto di chiusura vero e proprio della mia vecchia raccolta (quelle che comprenderebbe anche le poesie di Scapolo); da qui in avanti ho iniziato una nuova fase (titolo provvisorio: "... e tutto il resto", cioè tutto quello che da un po' di tempo a questa parte avevo lasciato perdere).

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Geopolis

Geopolis

Proemio

Musa, tu che mi spingi a cercarmi
in forme nuove, tu che cantando mi muti
nella spuma dell’onda e nella sabbia
del mare, nel ramo e nella foglia, nella stella
splendente e nel raggio tremendo di sole,
te invoco, soffocato dal grigio cemento,
tra gli striduli palazzi e nelle larghe strade
senza luna, vagando nella nebbia senza meta,
te chiamo nella notte più nera, nel dubbio
più profondo, cercando nel cielo la risposta;
te invoco, che fai brillare il firmamento
e nella brezza della sera conforti gli erranti
come me, perennemente assetati di vita.
Sempre sorreggi il mio fragile canto,
quando gemendo s’incaglierà tra i freddi uncini
radiotelevisivi e le bianche paraboliche
e incerto leverà la flebile voce tra i clacson,
quando cercherà tossendo tra i fumi cittadini
l’aria dei tuoi Monti, e stanco menerà l’ancora
sui lucidi neri lidi di catrame; tu reggilo,
come il vento sorregge la farfalla, innalzalo
sui ponti e i miseri grattacieli, sulle tossiche
nubi e le atomiche inesplose, oltre le piccole
guerre meschine ed il sangue da noi versato.
Rendilo degno del tuo alloro, figlia di Cadmo,
e della tua benevolenza fagli dono; o Musa,
guidami tra le tue vie, tra gente che non odia
nel governo dei giusti; cantami di Geopolis.

Alla prossima
Grillo Sognatore

domenica 15 gennaio 2012

Repost: Il bacio / 25-03-2010

Il bacio

Un’uggiosa giornata di febbraio. Piove. La voglia di vivere è così fioca, in questi giorni; emerge solo un indistinto desiderio di armonia, di quiete, di simbiosi con la pioggia che gocciola e gocciola senza fine.
Tutto sembra pioggia, evanescente, un po’ fatuo, un po’ inutile. Nelle strade grigie decine di quadratini rossi e gialli sfrecciano lasciandomi indifferente. Una coppia attraversa la strada davanti a me condividendo il mio percorso: giriamo a destra, lasciandoci alle spalle le vie caotiche. Lui è un po’ più alto, appoggia la sua testa su quella di lei, strofinandosi. Il silenzio è quasi totale, su tutto domina il gocciolio della pioggia; riesco a sentire i loro sussurri, vento nel vento. Lui le chiede come sta; lei sta male, ha litigato con la madre per un quattro in matematica, su  quelle derivate che non vogliono riuscire, la sua voce si smorza un po’. Sento che condividiamo la stessa malinconia: non te la prendere, questi momenti passano, e poi guarda chi ti è accanto!
Lui aspetta paziente che lei finisca di sfogarsi, sospira, aspetta ancora, lascia che il silenzio, denso di non-parole, di sguardi, di piccoli gesti delle mani del viso delle braccia li avvolga ancora, poi le dice: <<non te la prendere. Non sei fatta per questo; ci sono altre mille cose in cui sei maestra, per esempio l’Italiano. Conosci cose che io non sapevo nemmeno se esistessero, per esempio i versi di Foscolo, di Dante, di Leopardi; cose meravigliose, che toccano l’anima, molto più importanti delle derivate. E poi c’è una cosa che mi hai detto proprio tu, che va benissimo ora: mi dicesti che non importa vedere le cose piccole che facciamo ogni giorno, spinti
dalle circostanze, aspetta, come dicesti? Uhmmm…>>
<<il “contingente”>>.
<<ah si, mi ricordo: “non importa il contingente, ma il reale”. Tu vuoi bene a tua madre?>>
<<beh, si>>
<<e allora? Il resto non significa niente. Stasera torni a casa e se tutto va male fate pace domani mattina, se no già stasera starete ridendo come due ochette che sguazzano in un laghetto>>.
Lei ride sommessamente,un po’ di controvoglia, ma le è tornato il buonumore. Inizia a mugugnare una canzone che per le stonature non riesco a riconoscere, poi lui le si unisce cantando: è “Yesterday” dei Beatles.
Tra me e me anch’io la canticchio, continuando a camminare dietro a loro. Di fronte ad un semaforo rosso, anche se con la strada deserta, i due si fermano, ed anch’io, come ipnotizzato. La pioggia si calma e il silenzio diventa ampio, limpido. Lui mette il naso tra i capelli di lei, li annusa, poi dice: <<ti sei fatta lo shampoo>>.
<<si>>
<<Quello al cocco>>
<<si>>
<<lo sai che lo adoro>>
<<si, lo so>>
Lui le sfiora la guancia, poi le labbra con la bocca, poi il semaforo scatta verde e i due attraversano, con me dietro. La pioggia si quieta ancora. Sul marciapiedi le nostre strade si dividono: io vado a sinistra, loro a destra. Spiove, così come aveva cominciato, di colpo; torna a sprazzi il sereno, un tiepido sole pomeridiano rischiara la strada lucida. Come se niente fosse le auto, ora brillanti di tinte diverse, compaiono ad andatura lenta, misurata e si vedono al loro interno conducenti e passeggeri ridere e scherzare, ascoltare musica, parlare del più e del meno, mentre i tergicristalli battono i loro ultimi colpi. Mi fermo. Un piccolo miracolo si è svolto davanti a me; lo stupore mi blocca e resto per un po’ così, fermo, unico ad avere l’ombrello aperto sul marciapiede che si riempie di persone. Tutte le cose sono com’erano; ma niente è più lo stesso di prima.

Giovedì 23/02/2006

Un innocuo raccontino scritto qualche anno fa a scuola, mentre avrei dovuto seguire una lezione tipo chimica o inglese (di solito era durante una di queste due che scrivevo). Lo spunto è reale: il giorno prima avevo davvero assistito a questa simpatica scenetta (ovviamente senza il dialogo: non sono mica stato lì ad ascoltare che cosa si dicevano questi due! e poi in realtà non hanno parlato molto, sono passati subito ai fatti, se mi capite... ahahah), e il giorno dopo, sedimentandosi, zac! ha dato vita a questo racconto. Che poi in realtà definire racconto è una cosa grossa! Però insomma, ci siamo capiti.

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Un inizio scartato di romanzo: "Futurus" / 13-03-2010

Futurus

Mario levò gli occhi al cielo.
Era davvero una bella giornata, da non lasciarsi sfuggire.
Il cielo mostrava le sue sfumature violacee in tutto il suo splendore, mentre addirittura il sole aveva fatto capolino al di là delle nubi, svelando il suo disco giallo pallido velato dal SAR.
Certo doveva essere una vera seccatura, abitare in un mondo non-schermato, come facevano quelli sulla Luna, ma quelli erano sempre stati pazzi: da quando l’ONU di Jackson aveva dato l’avvio allo sfruttamento del suolo lunare, la peggior manica di scemi si era precipitata sul satellite, freddo e inospitale; dai nostalgici anti-nucleare ai Cristiani, antica setta sopravvissuta alla Guerra, fino ad arrivare ai repubblicani e ai comunisti, per non parlare poi degli Apolidi, di quelli che avevano rifiutato, all’inizio della guerra, la propria nazionalità per non combattere.
Era stato un bene che fossero andati lì, dove non avrebbero ammorbato l’aria con le loro sporche teorie e tutte le loro fissazioni sulla natura.
La Natura anzi, con la maiuscola, quella che gli Scout (altra setta sopravvissuta, della quale si vociferava anzi che avesse contribuito al sabotaggio di diverse bombe H62 e di numerosi attacchi) consideravano un bene prezioso, gli stessi Scout che si rifiutavano dopo di usare i Technologium bacteri per la depurazione dell’acqua dalle scorie.
“Causeranno mutazioni, e quei batteri provocheranno malattie”. Puah! Come se fosse un mistero che era stato Alfred Tinnigan a introdurre i batteri da lui modificati nell’ambiente*, quel pazzo misantropo.
Ma quella era una giornata splendida, con il suo odore di sodio e le pareti dei palazzi striate di marrone e grigio: quella notte aveva piovuto, evidentemente… una vera fortuna che nessuno fosse in giro, altrimenti la Squadra Disinfezioni avrebbe avuto
un bel po’ di lavoro extra!
Davvero una giornata meravigliosa… forse avrebbe portato i bambini, in uno degli spazi-picnic. Non gli era ancora capitato di andarci, da quando si era trasferito in città; quelli della campagna col cavolo che se lo sognavano, un parco così! Al massimo, fuori si poteva tenere qualche plastree**, così, per fare bella figura, tra le coltivazioni idroponiche, ma alberi veri… solo i Comuni potevano permetterseli, e neanche tutti: per fortuna Roma, come Capoprovincia, poteva… dopotutto l’Italia tirava ancora un bel po’ con il turismo, soprattutto per il Pirellone e l’Ara Pacis, esempi dell’architettura Classica del XXI secolo, gli unici rimasti dopo i microbombardamenti e i saccheggi dei Lunari.
I Lunatici, come li chiamava la piccola Elisabetta… Mario non trattenne un sorriso di scherno, rivolgendo gli occhi al cielo come a voler cercare l’invisibile satellite.
Era per questo che era nato il SAR… lo Schermo Anti-Radiazioni: per impedire alla Luna di mostrare la sua faccia odiosa, da traditrice, alla Terra, per non rischiare un’altra guerra; la Terra aveva bisogno di pace, l’aveva ottenuta a duro prezzo e l’avrebbe mantenuta ad ogni costo.
Camminando, Mario avvertì un leggero senso di nausea. Succedeva, quando si usciva senza aver mangiato: il sodio e il potassio presenti nell’aria irritavano la mucosa gastrica, che secerneva i suoi succhi anche senza cibo; quella mattina, però, era
quasi in ritardo al lavoro, e due chilometri a piedi non sono uno scherzo!
A pensarci bene, di una cosa Mario sentiva la mancanza, per una sola cosa invidiava i Lunatici: loro avevano, almeno, tutta l’energia necessaria, mentre sulla Terra era da pochi decenni iniziato il razionamento. Non poteva essere altrimenti: senza quasi più petrolio né uranio, esauritisi per la guerra, senza l’energia solare né quella eolica (il vento aveva smesso di soffiare, dall’accensione del SAR), con solo il calore interno della Terra e le riserve di carbone e petrolio Americane, non si potevano usare più auto, né avere elettricità per tutto il giorno.
Ma era un sacrificio sopportabile, per la pace duratura, l’ordine sociale e il benessere comune.
Un governo centralizzato, una burocrazia unificata, un solo linguaggio, una sola moneta, uguaglianza per tutti: U.S.A., l’Unità Statale per l’Amministrazione, sapeva prendere decisioni precise, affidabili e soprattutto orientate al bene comune: con i suoi milioni di sensori sparsi sul pianeta aveva sostituito per sempre le obsolete democrazie rappresentative, con i loro stupidi problemi e le magagne.
Al solo pensiero di essere davvero “Libero, come una piccola rotella nell’ingranaggio del Mondo”, come recitava lo slogan dei sostenitori di U.S.A., il petto di Mario si riempì d’orgoglio e gli sembrò quasi di respirare più leggero.
Arrivato al lavoro, timbrò il cartellino, si sedette alla scrivania e, nei tre-quattro minuti che mancavano all’apertura delle linee telefoniche, pensò con soddisfazione al suo lavoro.
La Banca del Seme non era più, come in passato, un posto dedicato a poche coppie sfortunate, ma era diventato una vera e propria istituzione: dopo l’ondata crescente di sterilità dovuta alle radiazioni, le coppie in grado di generare autonomamente erano diventate una rarità, e uno degli ultimi governi “umani”, il governo Smithson-Daniell, aveva stabilito che ogni essere umano fertile si recasse dalla Banca più vicina per depositare il suo patrimonio genetico, sotto forma di spermatozoi o di ovuli, pena la morte.
Il suo era un lavoro nobile: in quanto direttore della Filiale di Roma, provvedeva affinché la Stirpe Italica si perpetuasse, e con essa il genere umano: non poteva scherzare, bisognava stare attentissimi a individuare eventuali gameti mutanti e scartarli, destinandoli all’Istituto di Ricerca sulle Mutazioni, dove sarebbero stati poi fecondati e condotti ad alcune settimane di gravidanza artificiale per studiare gli effetti a lungo termine della Guerra.
Una spia rossa si accese sulla sua scrivania, affianco al telefono: dieci secondi all’attivazione delle linee, che sanciva l’inizio del lavoro.
Mario soffocò la domanda che lo premeva da svariati anni ogni notte, che lo teneva sveglio per ore senza potersi muovere: cosa avveniva sulla Luna?
Qualcuno gli aveva detto, per esserci stato in viaggio d’affari prima che installassero il SAR, che grazie ad un controllo gravitazionale, erano riusciti ad avere un’atmosfera e a far crescere piante e allevare animali all’aria aperta, e che anche loro avevano una lingua (ma non un governo) unica, che usavano nelle occasioni ufficiali: il “Latino”, che a quanto pare era una lingua già esistita sulla Terra nell’antichità, parecchi secoli prima.
Vivevano davvero peggio di lì, come da anni Mario si costringeva a pensare, oppure erano i Terrestri che non sapevano più come fosse la vita vera?
Un’ombra di malinconia, un ricordo d’infanzia passò rapido tra le rughe della fronte, mentre con solerzia alzava la cornetta che squillando gli ricordava, dolcemente ma con fermezza, che doveva mettersi all’opera.
<<0918 pronto>> rispose.
Sorridendo mitemente Mario 0918*** aprì un cassetto sulla destra, prese alcune carte e lo richiuse.
Sul fondo a specchio della sua scrivania osservò il suo aspetto; i capelli ormai brizzolati gli coprivano però più della metà della calotta cranica, e il suo profilo si manteneva moderatamente superbo: “D’altra parte” pensò poi, “non si può avere tutto dalla vita, a ventiquattro anni. Bisognerà pur accontentarsi!”.

Sabato 27 gennaio 2007

* questa storia di Alfred Tinnigan in realtà era una montatura del governo per nascondere il fatto che c'erano state delle mutazioni spontanee di questi batteri.
**sarebbe la contrazione di “plastic tree” (alberi di plastica).
*** le persone hanno un numero al posto del cognome per identificare la loro famiglia.

Ecco qui: nelle intenzioni, questo sarebbe dovuto essere il primo capitolo di un romanzo di fantascienza, ma come potete ben notare non sono tanto a mio agio in questo genere (pur essendone un affezionatissimo lettore)... mi sono vergognato di aver scopiazzato troppo Orwell, e ho lasciato perdere. Lo piazzo nella sezione utopica perchè credo che ci stia a pennello, anche se avevo pensato di postare un altro brano, ma è parecchio immaturo e voglio limarlo ancora un po' prima di darvelo in pasto. Considerate questo come uno stuzzichino...

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: Il Cazzeggiatore - Canto III / 11-03-2010

CANTO III
Stanze I – VIII

Che rinculo, ragazzi, che non vi dico!
E sottolineo “rinculo”, non già pel gusto
che rendea Adalgiso ciò ch'era, ma perchè
sbalzati fummo d'improvviso sulle squame,
sì che le chiappe urlaron di dolore furenti.
Dico che sedermi non potei normalmente
per lungo tempo d'allora, e furon guai,
e stridor d'ossa e denti. Ma passiam oltre.

Ma che dico? Passiam oltre? Le natiche,
quelle nobil semisfere che 'l buon Segnore
dotato m'avea in una sì bella forma – tanto
gentili e tanto oneste, che sempre svolgean
il lor mestiere! O che goduria ogne volta
appoggiarle in sulla tazza del netto water! –
Ahimè, quelle dolci, amene, soavi rotondità,
che sempre mi furon fedeli, son acqua passa.

Ridotte ormai, tra piaghe e severe cicatrici,
ad arance butterate da grandine e piovasco,
pendon flosce – maledetto sia quel drago! –
appese sui fianchi, ridondanti come scamorze.
Oimè, oimè, dovrei obliar esta triste vicenda.
Ma pur non posso! Sol mi capisce chi, preso
nell'umido budello il baston ch'altrove si ficca,
pur gode in baldanza... e più non dimandate.

Volammo; questo è sol che poss'io dirvi;
e volammo più leggeri di piuma, più rapidi
di freccia che d'arco scocca, più presti ancor
d'una notizia che vola di bocca in bocca,
più spinti d'un missil a reazione idrogenata,
più di più che deppiù nun se po dì! Tanto che,
in un battibaleno, ci trovammo in su nel ciel,
tra 'l blu dipinto di blu. E mi parea, meraviglia,

che le stelle ammiccassero, languide, tenere,
splendenti più di marmo paro... scambiandosi
baci e serene carezze in brillii luminescenti;
e che 'l Sol, severo e maestoso, le mirasse
quasi a commoversi menando un gran peto,
una colonna di foco che sul medesmo ricadea;
e le nubi, che sfrecciando noi attraversammo,
bucate come da tappo di champagne restar.

Ragazzi, più io nol so descriver; bastavi saper
che pel momento scordommi del chiappeo dolor,
e mirai a bocc'aperta est'ispettacolo. Tanto che,
per codesta mia distrazion, un picciol meteorite
mi centrò la gola, e finimmi in croce, e fecemmi
tossir come fumator da molte primavere consunto.
Ahi che dolor! Immaginate una povera pietruzza
scagliata a folle velocità nel cielo, che mi becca

giusto il gargarozzo, che mi resta incastrata
tra faringe ed epiglottide, che non se po' levar,
che paonazzo, violaceo, multicolor mi rendea
'l bel sembiante, che offuscar mi facea gl'occhi,
che mi rimembrò disusate bestemmie, che aprì
le porte per un attimo dell'Aldilà, che nel tunnel
veder mi fece una lucina, finchè per mia ventura,
o per abilità, l'ingoiai, e sen persero le tracce.

Ma nel frattempo, mentr'io quasi soffocavo
e niun disgraziato se n'avvedeva – tutti intenti
a rimirar le stelle, quei fetenti – 'l buon Adalgiso
stanco forse per la lesta partenza, s'appropinquò
ad un pianetino, tondo e rigonfio e bizzarrissimo,
per poter fare sosta e recuperar il suo gran fiato.
Quivi, discesi a far riposar anche noi 'l culetto,
d'inante sbucar vedemmo una bionda testolina.

Di chi sarà mai questa bionda testolina? Su quale strano pianeta sono capitati i nostri eroi? E soprattutto, quando mi deciderò a continuare questa storia? Tranquilli! Da adesso il poi prevedo aggiornamenti almeno settimanali... stay tuned!

Alla prossima
Grillo Sognatore

P.S. la prossima volta torno alla narrativa pura, non ho ancora deciso se con il primo pezzo "utopico" o con un raccontino di quelli svelti svelti, alla Calvino primo periodo. In ogni caso sarà qualcosa in prosa.

Repost: Poesia incollocabile / 6-03-2010

Ecco qui, torno con una delle mie (presunte) creazioni: questa qua ha quasi due anni, ma l'avevo tenuta in un cassetto perchè non mi è mai piaciuta fino in fondo; rileggendola adesso, dopo un bel po' di tempo, mi è sembrato che non fosse così malaccio. non so dove collocarla: non posso metterla tra le vecchie ma neanche tra le nuove, quindi resterà a vagare in eterno tra le nebbie di Avalon...
Il titolo è "Pioggia" non perchè sia azzeccato, ma solo perchè non riuscivo a trovarne uno buono e ne ho messo uno qualsiasi, quindi non dateci troppo peso.

Pioggia

Tutto, tranne che il silenzio: lo scroscio
della pioggia è solo il sottofondo.
Un ringhio roco s’addensa, e un lampo
mi scuote, mi riporta in vita. Prorompe
un rombo di tuono dalla bocca del cielo,
geme gorgogliando il seme delle nubi.
Un grido, un segnale, una crepa
di saetta: è questo l’inizio, è questa
la fine? Irrompe il vento, sprigiona
potenza vivifica d’amore: s’innalza
il canto all’immenso, spalanca la volta,
acceca la notte; e svanisce
in rantoli lontani…

Resta solo il pianto di gioia
che scivola sul mondo dormiente.

Maggio 2008

Alla prossima
Grillo Sognatore

P.S: dalla prossima volta tornerò alla grande con il Cazzeggiatore, che sfortunatamente era rimasto in sospeso... siamo al canto III e ne succedono delle belle!!!

Repost: Dovrei essere semiologo / 5-03-2010

Forse non mi farebbe male studiare un po' di semiotica. Dovrei essere più consapevole di quello di cui tratto - la letteratura, la comunicazione, quella sorta di "telepatia indiretta" che cerco di creare tra me e il lettore - e conoscere i limiti della mia volontà, della convenzionalità della comunicazione, eccetera.
Dovrei, perchè non è oro tutto ciò che luccica. Questa mia smania di stabilire un ponte tra quello che c'è e quello che non c'è (frase, questa, che analizzata fa un po' ridere, vero? è la solita semplificazione di chi vuole avere certezze e non sa come crearsele), tra l'interno della mia psiche e l'esterno, il mondo (anche questo, un concetto che ha ben poco che lo faccia stare in piedi!), questa smania, poi gira che ti rigira non ha terra sotto i piedi. Se "camminiamo in una foresta di simboli" (C. Baudelaire), e se attraverso questi comunichiamo (o c'illudiamo di farlo), com'è possibile che qualcosa arrivi all'altro (comunque sia inteso questo "soggetto")?
La speranza la dà, forse, non la c.d. "realtà", ma se mai la poesia. Una risposta, in apparenza, che più fasulla non si può: gli esperti la chiamerebbero una tautologia. Come a dire: per uscire dalla spirale dei simboli bisogna usarne altri. MA (e questo è il punto debole del ragionamento, cioè quello che fa si che non ci sia corrispondenza esatta tra i due termini) si può sempre sperare che qualcosa vada storto. L'imprevisto salva: non mi stancherò mai di benedire questa frase e il gran cervello che l'ha partorita (adesso non ricordo se L. Giussani o altri, comunque non importa). C'è una speranza, debole quanto si vuole, ma c'è, che qualcuno, cercando un simbolo, si imbatta all'improvviso in una cosa vera:

[...] il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.

(E. Montale, I limoni)

E quindi ecco spiegato quel condizionale: dovrei studiare semiotica. dovrei ma non lo faccio. perchè non voglio spiegare i simboli, ne voglio trovare altri, sperando appunto di beccarne uno che sia falso, e perciò - mistero dell'esistenza - assurdamente più vero di tutti gli altri.
Oh poi, amici, voi lo sapete bene, magari ho sparlato un'altra volta sul nulla puro, ho perso ben mezza giornata a fare una speculazione che fa ridere i logici, però se stessi a controllare ogni variabile di quello che dico, starei fresco! meglio procedere così, per approssimazioni, fiutando le tracce di verità che di volta in volta mi passano sotto il naso.

Alla prossima
Grillo Sognatore

P.S: con questo discorso non voglio negare nulla ai semiologi e affini. Studiano una cosa così interessante che è l'oggetto dei miei desideri, quindi denigrarli significherebbe proprio sputare nel piatto dove mangio! ahahah diciamo che è una divagazione sul tema. tra l'altro, una di queste volte vorrei fare un piccolo excursus su questo concetto cercando di fare una mini-lezione non molto pesante, magari in forma di dialogo o di apologo. Ma per le prossime volte tornerò a postarvi un po' di poesie, come ai vecchi tempi.

Repost: Si comincia davvero: Il taccuino del Signor Sakamoto / 1-02-2010

La memoria del Signor Sakamoto

Mipis L. Sakamoto si alza dal letto, fa le abluzioni quotidiane impostegli dal monaco di sua fiducia per allontanare gli spiriti maligni, prende dalla sua scarsa cucina un contenitore di legno con glifi incisi in argento e lo apre, inalando l’aroma che ne fuoriesce. È una polvere ricavata dalla corteccia di un albero che cresce solo nelle pianure centrali della Cina. “Inspiralo per tre volte quando il sole sorge, e per altre tre quando il sole tramonta” gli ha consigliato il monaco. E il signor Sakamoto obbedisce, e si sente subito meglio. Con questa precauzione, i suoi bronchi saranno sempre sgombri da muco e più resistenti allo smog.
Del resto, in una città come Osaka, c’è poco da stare allegri. La gente cammina con le mascherine, i pochi temerari che non le indossano sono, come lui, fortunati ad avere protezioni così efficaci – e anche, pensò con un sorrisetto, costose – come le sue.
Il Signor Sakamoto richiuse la guarnizione ermetica del contenitore e si apprestò a fare colazione. Da un bacino in pietra preleva un cubetto di ghiaccio e lo pone in un bicchiere, poi esce in balcone, dove strappa ora da una pianta ora da un’altra una foglia, un rametto, un pezzo di radice. Sciacqua il tutto e comincia a pestarlo in un mortaio di legno, con un pestello di ferro dolce, intonando un canto propiziatorio.
La sua voce sveglia Yichio. <<tesoro, devi per forza cantare a voce così alta a quest’ora?>> Sakamoto fa finta di non sentirla, tuttavia abbassa un po’ il volume, e versa le erbe triturate nel bicchiere dove il cubetto di ghiaccio ha appena cominciato a sciogliersi. Il profumo è sublime, ma è solo un assaggio di quello che sarà la sua colazione. Dallo stesso bacino del ghiaccio, scavando appena con le punte delle dita afferra una bottiglietta di vetro che contiene un liquido bianco, semitrasparente. Latte di soia. Un mugolio di soddisfazione invade la gola del signor Sakamoto, che continua a cantare. Gli viene in mente una canzone degli Stones, ma non può farsi distrarre, o gli influssi negativi avranno la meglio sulla lunga giornata di lavoro che comincerà fra tre ore. Uno dopo l’altro snocciola i nomi delle divinità benevole, chiedendo loro protezione, e alternando ogni cinque il nome di uno spirito malvagio, allontanandolo da sé. Yichio si rigira nel letto, sbuffando e ridacchiando tra sé. Si chiede quanto durerà quest’ultima mania del marito. Una volta era andato avanti per un anno senza avere contatti con nessuno a parte lei, convinto che per la purificazione dell’anima quella della pelle fosse altrettanto importante. Un altro monaco, un’altra fissazione: se non altro, questi continui cambiamenti portano sempre novità a letto, dove è sempre bello variare. Socchiude le palpebre e guarda per un microsecondo l’orario della sveglia. Santo cielo, può dormire almeno per altre due ore. Si raggomitola per bene nelle coperte e si lascia cullare dalla voce del marito, che in fin dei conti non canta così male.
Il latte di soia, mescolato con zucchero di canna prodotto a mano in una certa aziendina del Sud del Giappone, aromatizzato con le erbe appena raccolte e tritate, raffreddato da ghiaccio non tenuto in freezer - proibito usare attrezzature elettriche! Modificano il flusso energetico degli alimenti e delle persone! – è la colazione perfetta in quanto a proteine, calorie ed energia. Il Signor Sakamoto lo beve quasi goccia a goccia, lasciando che ogni sorsetto si diffonda sulla lingua, si spalmi per benino sulle guance, sotto la lingua, e si diluisca lentamente. Gli ci vogliono una buona ventina di minuti, dopo i quali è pronto per lavarsi i denti con una pasta preparata dal monaco in persona, che gli toglie completamente ogni sapore e gli lascia la bocca ruvida per buona parte della giornata. Ruvida, ma pura. Nient’altro che l’essenza della sua mucosa. Il Signor Sakamoto passa in rassegna le varie parti dell’apparato digerente, i vari strati, le proteine che sarebbero entrate in gioco nel distruggere e riassemblare quello che aveva appena ingerito, felice di non essere arrugginito. Roba da primo anno di università! Ma finchè lo ricordava, poteva stare tranquillo che il suo lavoro sarebbe stato di eccelsa qualità, come lo era sempre stato fino ad allora.
“Tenere la memoria in continuo esercizio” gli aveva anche raccomandato il solito monaco. “Deve provare, Sakamoto-san, a ricordare i più minuscoli dettagli di una giornata, di un’ora, di un minuto, perfino di una fugace impressione. Deve tentare di ricordare, in un momento casuale della giornata, un ricordo casuale. Per esempio, ora mi saprebbe dire quando è stata la prima volta in cui ha assaggiato del sashimi di gamberi?”
Sakamoto aveva dovuto ammettere di non ricordarselo. Ma da allora, la sua memoria era in continuo miglioramento. “La prima volta è stato il 18 febbraio del 1975. Mia madre lo cucinò per festeggiare il mio primo dente da latte caduto” aveva risposto dopo una settimana al monaco. Gli ci erano voluti giorni per recuperare quel primo ricordo, ma dopo aveva cominciato ad essere sempre più rapido. “cosa ha fatto quando è andato per la prima volta in aeroporto?”
“Ho preso un caffè italiano e l’ho subito sputato perché era troppo amaro, poi sono rimasto seduto al check-in per 36 minuti, dopodiché mi sono alzato e ho urtato per sbaglio un’anziana signora, che mi ha imprecato contro. Io le ho chiesto scusa e l’ho aiutata a rialzarsi, poi sono salito in aereo. Era il 31 marzo del ’94, stavo andando a Melbourne per un viaggio di studio”. Questa volta, dopo mesi di allenamento, la risposta era venuta quasi spontanea. “Di che colore erano gli abiti della signora?” aveva chiesto il monaco. “Aveva un kimono a fantasia floreale verde e rosso. Portava una borsetta dorata, con un fermaglio a forma di farfalla blu. Ricordo che pensai
che era una vera schifezza.”
Anche stavolta, mentre faceva colazione, il Signor Sakamoto pensò a un ricordo casuale. Fissò distratto il calendario, scelse un giorno e un anno a caso. Il 22 novembre del ’96. Che stava facendo?
Era il suo quarto anno di lavoro. Novembre, quindi dopo le vacanze in Cina o dopo quelle in Nuova Zelanda? No, no, erano quelle in America. Era stato in vacanza a Miami.
Tornato, aveva ripreso gli studi su quella sezione del genoma, quella del carcinoma… no, quella del Parkinson, era quella del Parkinson. E aveva già messo gli occhi su Himiwari, la bella Himiwari che poi gli era stata soffiata da Kuro. Quel giorno le aveva offerto il caffè, poi si era accorto che non aveva spiccioli, aveva rimediato solo una figuraccia. Dunque… un ricordo a caso… cos’aveva mangiato quella sera? Polpette di riso, sushi di trota, sakè di marca scadentissima, e acqua di rubinetto. Beh, il suo stipendio era quello che era… una manciata di centinaia di yen.
Riapre gli occhi, emergendo dal ricordo, e davanti a sé si ritrova Yichio davanti. Sobbalza facendo cadere un bel po’ di latte di soia. <<ma che… Yichio. Quando la smetterai di disturbarmi durante gli esercizi di memoria? Mi servono ad ampliare lo spirito per renderlo più capace di captare gli spiriti benefici. Lo sai che se mi fai prendere questi spaventi non vado avanti>>
<<sei fissato>> gli dice lei in un risolino soffocato. <<diventerai un paranoico>>
“non è questo” vorrebbe dirle Sakamoto, “è che da quando questo monaco me l'ha fatto notare, mi sono accorto di quanto della mia vita si fosse disperso, di quanto la mia visuale si fosse ridotta. Finivo per ricordare solo le cose che mi erano successe da poco, non riflettevo più su quello che stavo facendo. I ricordi si erano così sedimentati che si erano trasformati in meccanismi acquisiti, che non mettevo più in
discussione. E piano piano stavo perdendo il senso dell'io. Da quando faccio questi esercizi mi sento più capace di amarti, perché non dò la tua presenza per scontata”.
Sakamoto vorrebbe dirle questo, trascinarla in una discussione sull'essenza della memoria, del tempo, dell'io, ma si rende conto guardandola che preferisce conservare, di questo momento, il ricordo degli occhi dolci e un po' assonnati di lei che mangia latte e cereali, passandosi la mano tra i capelli ogni tanto per sentire se i nodi che di lì a poco dovrà pettinare sono ancora lì. Si, sono ancora lì, purtroppo. Sbuffa e rituffa il cucchiaio nel latte, e sbrodola un po'. A Sakamoto-san quel rumore, quella goccia di latte colata dalle labbra, che lei sta per asciugare con un tovagliolo, sembra la cosa più sensuale del mondo. La previene baciandola proprio lì dov'è scivolata la goccia, e poi più su, il cucchiaio tintinna sul tavolo, la signora del piano di sotto sente una risata cristallina, la giornata del signor Sakamoto è ancora tutta da cominciare e da vivere.

Alla prossima
Grillo Sognatore

Repost: "L'Officina del Grillo": presentazione e spiegazione / 9-01-2010

Cari amici/lettori,
ecco qui la novità! Ho rimodernato il blog, gli ho cambiato aspetto e soprattutto, cosa importante, l'ho rimodellato dal punto di vista concettuale.
Innanzitutto il nome: L'officina del Grillo.
L'ho scelto perchè è così che lo voglio usare d'ora in poi: come fucina delle mie creazioni letterarie, oltre che come vetrina del mondo e di me.
La prima novità (prima solo in ordine di tempo), e per ora la più vistosa, è la scomparsa di Scapolo Simmati, che richiede una spiegazione a sè, forse un po' prolissa, ma indispensabile.
Scapolo Simmati. Le lettere di questo nome e cognome, anagrammate, danno il mio. Ebbene, non è un caso, perchè Scapolo Simmati è un mio pseudonimo con il quale ho firmato delle poesie, delle invettive che questo personaggio rivolgeva contro un altrettanto immaginario personaggio, William, suo ex collega di lavoro all’università che, in combutta con Anna, una loro collega, lo aveva fatto sedurre per poi gettare del
discredito su di lui e fargli perdere la cattedra in Ricostruzioni Tardoantiche.
La depressione era stata così forte che gli aveva fatto tentare il suicidio, e poi era tornato in Italia per dimenticare, non ci era riuscito e infine era morto.
Aveva però lasciato volutamente le sue ultime poesie a me, per invogliarmi a investigare.
Poi io avrei scoperto la verità, facendo confessare a William che cosa aveva fatto, e riabilitato così la sua memoria. Questo doveva essere l’epilogo apparente.
Poi mi sarebbe stata recapitata una lettera da Santiago del Cile firmata da un certo Diego Hèrnandez che svelava di essere proprio Scapolo, che aveva finto la sua morte per farmi investigare. Diego aveva trovato una moglie in Cile e quindi aveva rinunciato del tutto al suo nome e alla sua rivincita. La felicità raggiunta come direttore di un locale giornalino, sposato e con un bimbo in arrivo, non era paragonabile a quella che avrebbe trovato restando negli USA.

Ecco, in soldoni, quello che volevo dire negli ultimi 2 capitoli (più la lettera). Una storia che con la mia vita privata aveva solo vaghe attinenze, e solo tematiche: io credo che ogni scrittore parli di sé nel suo lavoro, partendo da quello che ha vissuto o vorrebbe vivere. Ma questo discorso, se sviluppato a dovere, mi porterebbe troppo lontano, e io sto scrivendo per darvi un annuncio.
La storia di Scapolo Simmati finisce qui. Cancello quasi tutto. Lo faccio però con alcune precisazioni.

Quando, a Palazzo Paleotti, ho cominciato a scrivere “Ho deciso di vivere molto meglio…”, volevo pubblicare un gruppo di tre invettive scritte e firmate da me. Scapolo ancora non esisteva. Poi, d’impeto, ho continuato. E quella frase, “io, da parte mia” è diventata un ritornello. Ho superato la decina, e mi sono ricordato di un vecchio foglietto nel quale avevo appuntato degli anagrammi del mio nome: mi sono ripromesso di guardarlo, quando fossi tornato a casa. Nel frattempo, quello che scrivevo era e non era più mio, diventava un’altra cosa: diventava un atto di difesa contro l’ingiustizia che c’è nel mondo. E cominciava a crearsi in mente una storia. “Perché quest’uomo è incavolato? Perché lo sono io, certo. Ma perché lo è lui? Chi è? Che cosa gli hanno fatto?”. Mano a mano che mi si formavano queste idee, ripensavo a quando ho cominciato a scrivere poesie. È stato in terza media. Così ho cominciato a scrivere il suo necrologio, che all’inizio era una semplice biografia: volevo solo presentare le poesie di un mio coetaneo. Ma perché allora lui non si era fatto un suo blog, perché aveva bisogno del mio tramite per pubblicarle? “Perché le teneva nascoste” è stata la risposta. E allora, io come le avevo avute? Beh, o gliele avevo fregate, oppure…
Oppure lui era morto, e quelle erano poesie postume.
Quindi, potendo solo fare supposizioni, sarebbe scattata in me la voglia di indagare: e infatti all’inizio prevedevo di alternare alle poesie le indagini. Poi ho accantonato il progetto e volevo farlo finire con l’ultima, l’epilogo, densa di significato proprio perché abbandonava i toni delle precedenti e parlava di tutt’altro, di senso della vita, di valori veri, non espressi in negativo (per anti-calco di William), ma in positivo. Quella, infatti, non la rimuoverò.
E le altre? Per quelle bisogna fare un discorso a parte.
Nate in un momento buio, erano in origine 34, come i canti dell’Inferno. Dovevano essere altamente simboliche e raffigurare altrettanti stati d’animo: ma di quest’intenzione c’era ben poco nella pratica. Cominciai comunque a pubblicare le prime tre o quattro, e mi resi subito conto che stavo facendo una cavolata abnorme. Erano banali, ripetitive, irose, piene di veleno. Feci una cernita in corso d’opera, e ne pubblicai “solo” 28, però non mi limitavo a fare copia e incolla: le rimodellavo, le riordinavo, le rendevo un corpus. In alcuni punti, mi sono anche divertito a rincarare la dose: non mi interessava più quello che volevo dire io, ma quello che a lui premeva; stavo dando loro l'impronta di Scapolo. E dopo le prime quattro o cinque, questo Scapolo cominciò ad essere un ritratto morale definito, che nonostante detestasse gli idealisti (come me) suo malgrado lo era. Allora ad interessarmi non era più il suo antagonista, ma cominciava a diventare lui. Tanto che le ultime poesie non sono affatto quelle che ho scritto in origine, ma altre, più meta-letterarie. E il mio rapporto con la scrittura è rinato: ma non avevo ancora qualcosa di nuovo da dire. Aggiungevo nuovi dettagli, gli davo uno sfondo (gli USA, l’ambiente accademico),
allargavo la cerchia di Scapolo: e allora la sua storia da universitario, il suo tentato suicidio, la sua ex. Ma non volevo che la sua vita fosse una cesura netta prima/dopo: anche dopo, aveva continuato a godere del prestigio accademico. Se avesse voluto, avrebbe potuto ricominciare. Non averlo voluto è stato un errore che lo aveva condotto alla morte, e che resta, appunto, un errore: esprimendo questo, nell’ultimo capitolo, che conteneva anche un elogio funebre, contrapponevo alla sua dipartita la “nostra” voglia di lottare, che alla fine aveva portato a qualcosa di positivo, mentre il suo volersi chiudere non era approdato a nulla.
Piano piano stavo trovando qualcosa di nuovo da dire: il mio esserci-nelle-cose. Vivevo distratto, non avevo attenzione: e con quella era andata via anche la fantasia. Tornando l’attenzione, ecco che tornava l’immaginazione: e ho cominciato a scrivere gli apologhi.
Mi ricordo di aver detto che “lirica è il sentimento dell’universale nel particolare”. Credo che sia fondamentale, in poesia e in generale nella scrittura. Fuor di metafora: scrivere significa trovare in quello che succede nel mondo qualcosa di altro, di più centrale. Così su questo blog, da sempre, ogni cosa che mi è successa è stata lo spunto per parlare di qualcosa di paradigmatico, di esemplare: valga, uno per tutti (l’ho preso davvero a caso) il post del 23 settembre 2008 (lo trovate cliccando qui).
Per questo, con le poesie di Scapolo ho quasi da subito avuto un rapporto conflittuale: ad un certo punto, esaurita la spinta propulsiva della rabbia, mi sono chiesto perché stessi continuando a pubblicarle. Poi ho capito, ed è uno dei motivi per cui ho preparato anche una raccolta (“Poesie 2007-09”) in cui queste poesie sono in una sezione a parte, seguite da quelle che ho scritto da gennaio in poi: “Partenze ed arrivi”. Erano il mio punto di partenza: per il quieto vivere, avevo tralasciato la mia coscienza. Nel momento in cui questa ha avuto uno scatto di orgoglio, ecco che di prepotenza sono tornato a parlare di morale. Era arrivato il momento di dire “ma che schifo ho davanti, vediamo un po’ di cambiarlo!”. Dopo aver scritto quelle invettive, il mio modo di fare poesia non era stato più lo stesso: avevo smesso di essere passivo ed ero diventato propositivo. Propositivo di un’idea della letteratura, di un’idea dell’uomo: e in conclusione ho posto un epilogo che descrive l’insostituibilità di ciò che si è perso e la necessità di andare avanti. Perché i pezzi della scacchiera non sono uguali: perderne uno solo significa aver perso una parte del proprio essere.
Voglio pubblicare qui l’introduzione alla raccolta.

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Premessa
Per non offendere?

Gran parte di queste poesie non hanno bisogno di nessuna spiegazione: per alcune però, che si riferiscono a un certo evento, si è resa necessaria.
Dopo un grosso litigio, ho riconsiderato in maniera radicale il mio posto nel mondo, nella società, nel groviglio delle mie relazioni. Da questo è nata l'urgenza di capire che cosa mi stava succedendo. La risposta è stata quella di creare un alter ego con una sua storia, parallela alla mia, che ne svelasse le contraddizioni, l'essenza. Volevo sapere cosa ci fosse di sbagliato in me.
La soluzione migliore che ho trovato è stata quella di dare voce direttamente a lui, alla sua rabbia contro qualcuno e contro il mondo. È stato liberatorio, confortante, ma non risolutivo. Alla fine, le parole per spiegarmi sono dovute venire da me, e queste sono le altre poesie che riguardano l'argomento, sparse qua e là nella raccolta (in tutto cinque su circa una settantina: questo per evidenziare che non è stato un “accanimento”, ma una riflessione a margine delle altre).
Vi chiederete perché ho inserito le poesie di Scapolo nella raccolta. L'ho fatto perchè, al di là della storia che raccontano, sono mie. Sono ciò che credo sulla vita, sul disinteresse, sulla lealtà, sul valore della parola scritta. Lo erano quando sono nate e lo sono ancora adesso, separate dalla contingenza dell'episodio. Sono invettive contro gli egoisti, contro chi considera i rapporti umani una finzione e calcola solo il proprio interesse. Non significa niente che per me questo qualcuno è stato, fino ad un certo punto, identificabile: lo sarà per chiunque le leggerà, ognuno darà loro un destinatario diverso, personale. Per questo la pubblicazione della poesia ha senso:
serve a chi legge.
La decisione di inserirle è venuta dopo aver pensato al senso della parola, del pensiero, del mio ruolo di artista. Non si è trattato di ripicca o di affronto, e valga, per spazzare via ogni dubbio, quest'ultima rassicurazione: mi scuso se, per la pubblicazione in volume di queste poesie, qualcuno dovesse sentirsi offeso. Credo di non poterlo esprimere più chiaramente di così.
Ma non ho potuto censurarmi: non avrebbe avuto senso tenerle segrete per non rischiare di offendere. La letteratura, la poesia, l'arte, sono fatte per colpire la sensibilità del lettore, per spingerlo a ripensarsi, a rimodellare il suo io. Seguire, nella cernita (che pure c'è stata), un criterio diverso da quello della qualità sarebbe stato assurdo. Non rimpiango nessuna delle mie scelte.
La selezione che ho fatto corrisponde a un'intenzione che avevo già da quando le pubblicai sul blog: lì ne arrivarono solo 28 (contro l’attuale ventina), ma non tutte contraddistinte dall'intento morale che volevo che avessero. In origine erano 34, come i canti dell'Inferno, e per raggiungere questo numero ne scrissi anche di fini a se stesse, che mano a mano ho provveduto ad eliminare. Ripeto: questi tagli sono dovuti a motivi estetico-morali, non per compiacere nessuno. Quanto ho scritto mi appartiene, moralmente ed intellettualmente.
Biograficamente, non più. Scapolo, si può dire, è davvero morto con la pubblicazione di queste poesie: questo libretto è la sua vera epigrafe tombale.
Le altre poesie “firmate da me” che riprendono la questione sono degne come le altre perché rappresentano la mia reazione di fronte al cambiamento: non attacchi verso qualcuno, ma tappe significative della mia coscienza in questo percorso.
Il vero epilogo però è altrove: non nella rabbia, non nel dispiacere né nella nostalgia, ma in una scelta di coerenza e saldezza intellettuale che mi ha portato a non accontentarmi mai di ciò che, pur essendo comodo, non mi appagava.
Spero che questa spiegazione non sia stata inutile. Mi secca moltissimo spendere così tante parole solo per una parte di questa raccolta, facendo sembrare il resto un accessorio: in realtà è stato il contrario, la parte su Scapolo ho pensato di aggiungerla alla fine, è solo la “partenza” per riprendere il titolo. Arrivo: è questo il nucleo. La partenza ha senso in quanto ciò che ho abbandonato, ma molto più importante è ciò che ho raggiunto. Per questo adesso dovrei parlare, in proporzione, del resto della raccolta, ma impiegherei troppo spazio e non ne vale davvero la pena per un'operetta stampata per il diletto mio e di una decina di lettori. Non lo faccio, ma sentendomi in colpa: non era necessaria nessuna introduzione. Spero che, in futuro, non ci sarà più bisogno di auto-recensirmi: soprattutto per un poeta, quello che conta è la coscienza del lettore. È uno specchio che funziona al contrario: non sono io a vedermi, ma voi. E se sarò riuscito nel mio intento potrò dire di avere qualche speranza.
Questo discorso si è spinto fin troppo in là. Se ho scritto queste pagine è stato per evitare inutili fraintendimenti e far si che quello che c'è qui dentro possa essere gustato senza pregiudizi, per quello che è. Non servono altre parole.

Alla prossima
Grillo Sognatore