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lunedì 30 gennaio 2012

Repost: Le licenze poetiche, postilla / 19/11/2010

Postilla: Dove finisce la licenza poetica (e comincia il buon governo)

Bene, mi sono divertito ad essere un po' estremista, ma bisogna anche riportare le idee in un quadro più realistico: come in ogni cosa, anche qui va introdotta una misura del “giusto mezzo”. L'uso che della lingua fanno i parlanti è spesso improprio anche per un normale scarto: è solo il risultato dell'ignoranza. É, diciamo, come se ognuno dovesse crearne una propria riempiendo i vuoti della propria educazione. Bene, giusto: così si creano le varianti. Poi però sta a noi scegliere, consapevolmente, quali di queste far diventare “licenze” (e, in futuro, regole e nuovi vocaboli), e quali invece correggere come errori. Una regola non esiste, per fortuna: si tratta semplicemente di scegliere, collettivamente, come “intelletto nazionale” per così dire, in che direzione vogliamo andare. Vogliamo una lingua superficiale*, attenta ai fenomeni così come si presentano? Bene, allora la infarciremo di slang e parole straniere, e aboliremo il congiuntivo, perchè quello che conta è l'immediatezza, il poter dire quella stessa parola in ogni angolo del globo e capirsi. Quindi computer, network, LOL, eccetera. Vogliamo invece una lingua più nazionalista, etimologicamente profonda, che costruisca un sistema di pensiero coerente? Benissimo, allora latinismi, regole rigide, consecutio temporum perchè sia ben chiaro il nesso tra un anello del ragionamento e il successivo.

Non c'è una scelta giusta o sbagliata in linea di principio: l'importante è accrescere la consapevolezza. Io sono convinto che, in quest'epoca di crescente democrazia (cioè in cui il potere viene dato alla massa, ai milioni di persone, costretti ad agire come uno solo), non possiamo più permetterci di essere ignoranti. Dobbiamo essere sempre più coscienti di quello che facciamo, ad ogni livello, dall'alimentazione al voto, e aggregarci in reti che ci permettano di comunicare sempre meglio, per poter fare collettivamente le scelte giuste, che non ci danneggiano: per questo la lingua che ci serve non è quella accademica e ridondante delle Università, ma non può nemmeno essere quella semplificata e rimbecillita degli sms, dei blog adolescenziali, dei social network pieni di gente egocentrica che afferma il proprio uso della lingua su quello degli altri: dobbiamo essere flessibili, accogliere nuovi vocaboli e mettere in soffitta altri, sopprimere alcune regole della nostra grammatica e crearne di nuove, ma tutto sapendo cosa si fa e perchè lo si fa, senza cedere all'istinto facile di seguire l'onda o di mettersi a pecora per la tradizione. Se riusciremo a vincere questa sfida (ma è una sfida infinita, che si dovrà combattere giorno per giorno, senza fine), potremo governare sempre meglio noi stessi e il nostro pianeta, e magari evitare di autodistruggerci (prospettiva che ahimè vedo sempre probabile).

Alla prossima
Grillo Sognatore

*attenzione: "superficiale" qui non è usato in senso dispregiativo; l'ho inteso come lo intende Alessandro Baricco nel suo saggio I barbari: che bada alla superficie, al multitasking, all'interconnessione tra i fenomeni e non alla ricerca della radice di un singolo fenomeno. è il dilemma che da sempre si pone tra la rete e la trivella: l'una avvolge il mondo e cerca di abbracciarlo trasversalmente, l'altra lo penetra fino al cuore per scoprirne l'essenza. Due modi ugualmente legittimi di fare filosofia.

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