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lunedì 30 gennaio 2012

Repost: Le licenze poetiche, parte II / 16/11/2010

Parte II: Verba volant, scripta manent.

È proprio questo il problema: fissati con quest'idea dell'immortalità delle opere scritte, poco alla volta abbiamo ceduto, anche noi borghesi/proletari, all'idea aristocratica della cultura che si basa sull'erudizione. Da qui la (ri)nascita dell'etimologia e della grammatica come ricerca del “giusto significato” e della “giusta regola” da seguire nella composizione di un testo. Ma per piacere. Ci rendiamo conto di dove ci sta portando tutto questo? Lavorando un po' in biblioteca sono riuscito a farmi un'idea: esistono migliaia di libri scritti per commentare altri libri, e in molti casi anche per commentare dei commenti altrui! Una specie di “social network” retorico che soffoca il valore delle opere letterarie in due modi: 1) rendendo ogni testo un insieme di informazioni da estrarre in qualsiasi modo (secondo analisi quantitative, anche: in che percentuale Dante ha usato i pronomi personali? E quanti aggettivi ci sono, in media, in una frase di Buzzati? Eccetera) e 2) scrivendoci sopra tante di quelle opere di commento da rendere impossibile la lettura a chiunque non abbia studiato, prima, almeno una manciata di quei saggi. Oddio!

Riuscite a immaginare che cosa deve aver letto o studiato qualcuno per poter fare un'affermazione qualsiasi su Italo Calvino, per esempio? Ve lo dico io: perlomeno dieci saggi. E Calvino è morto una ventina di anni fa! Come dire che uno non si può leggere in santa pace nemmeno le opere dei suoi contemporanei. Ora, questo circolo vizioso ci sta portando a creare una “sovrastruttura” intellettuale così forte da soffocare il testo vero e proprio. Che cosa c'entra con il discorso principale, direte.

Anche nella letteratura ci stavamo riducendo così. Eravamo arrivati a non concepire più un testo se non come “ben formato”, se non come rispondente alla grammatica. Poi per fortuna è arrivato il neorealismo! E con il neorealismo le avanguardie di ogni genere, e con la spinta delle avanguardie piano piano il “parlato” si è infiltrato nello scritto.
Chiariamoci: che c'è di male? È semplicemente l'evoluzione di una lingua! Perchè il latino è morto? Perchè coloro che lo insegnavano e che lo scrivevano si hanno voluto conservarlo per secoli in una teca di vetro, perfetto e immutabile, mentre la gente continuava a inserirci
variazioni di ogni tipo, fonetico, morfologico e sintattico. Alla fine i predicatori – quelli con la vista più lunga – si erano accorti che nessuno capiva un sermone in latino e hanno cominciato a fare le prediche in volgare. Così sono nate le lingue neolatine (letterariamente parlando, intendo), e nessuno adesso si sogna di dire che questo sia stato un “assassinio” del latino! Stessa cosa sta succedendo alle lingue neolatine adesso – e, vorrei dire per inciso, stessa cosa è successa e succederà a tutte le lingue finchè esisterà il linguaggio naturale: lo stesso latino ha assorbito parole e regole provenienti da tutte le lingue italiche, mano a mano che ne conquistava i popoli – e opporsi in nome dell'uniformità capitalistica non farà altro che accelerare il processo di insofferenza della gente. Che comincerà a corrodere le regole dall'interno: e poco alla volta a creare una nuova lingua.

Sia chiaro: a me l'italiano “standard”, quello “corretto” (con il congiuntivo eccetera) piace, lo uso perchè mi piace il suo suono, la sua scorrevolezza; per motivi estetici, e perchè, dopo aver studiato e letto così tanto libri scritti in quella maniera, mi viene abbastanza spontaneo tutto sommato. Ma questo non vuol dire che non senta addosso il peso di questa costrizione. Per cui sperimento, innovo, o scelgo tra le innovazioni che vedo (è il caso di “affianco”): ho bisogno di farlo. E non perchè sia cretino io: è il bisogno innato di ogni parlante di innovare la propria lingua, di rendere cioè adatto alla propria mente, unica e inimitabile, una struttura che pretende di essere universale e “portabile”, usabile da chiunque.

Il linguaggio ha questa pretesa, ma è ovvio che è un'utopia, come la democrazia perfetta: ogni sistema di segni ha bisogno, per esistere, di avere un interpretante, qualcuno che associa un significato al segno. E questo qualcuno non potrà mai avere una visione esattamente identica
agli altri: differirà magari in una virgola, in una minuzia – in una preposizione o in un aggettivo – dal “resto” dei parlanti, ognuno dei quali differirà dal proprio “resto”.

Così, lentamente, le lingue si evolvono, nascono, crescono e muoiono (per così dire) con noi. E per questo continuerò a dire “affianco”, come ogni tanto salterò un congiuntivo quando non ci sta (dovevo dire “ci starà”, vero?), per questo continuerò a sperimentare ed evolvere il mio modo di esprimermi, per raggiungere l'equilibrio giusto per il mio tempo (ben sapendo, ahimè, che è transitorio: e chi mi leggerà fra cinquanta o sessant'anni non potrà che ridere del mio stile).

Alla prossima
Grillo Sognatore

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