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martedì 4 marzo 2014

"Cultura"

Più leggo, più capisco che la cultura è qualcosa di intimo. Un "fatto" che ha sede nella mia coscienza. Certo, ha delle radici nella società, nella religione, nella mia generazione, ma non la si può ricondurre a questo, e nemmeno ad un'appartenenza territoriale.
Un libro ha il potere di rendermi fratello di molti che non parlano la mia stessa lingua né professano la mia religione, gente che ha un pensiero politico completamente diverso dal mio, più ricca o più povera di me.
E questo mi fa pensare che, se basta così poco per attraversare barriere che di solito scatenano guerre, beh, allora queste guerre semplicemente non hanno senso.
Molto semplicistico, se volete. Di sicuro è un pensiero che non tiene conto della complessità geopolitica dei conflitti, di tutte le questioni spesso materiali che ci stanno dietro, ma non riesco a togliermi dalla testa che tutta la storia dei conflitti culturali sia una grossa, grossa menzogna alla quale continuiamo a credere perché è confortante, una comoda panacea grazie alla quale possiamo evitare di concentrarci sulle vere cause dei conflitti.
Prendiamo per esempio questa storia dell'identità: un enorme "mostro culturale" creato da secoli di riflessioni che ci impediscono ormai di vedere la questione al suo nocciolo.
Il nocciolo della questione è: ad un certo punto alcuni (non tutti!) popoli della Terra hanno smesso di condurre una vita nomade e si sono stabiliti. Nasce il concetto di "territorio", come qualcosa da difendere e conservare. All'inizio sono questioni pratiche, concrete: bestie selvatiche da cacciare, altri gruppi umani che si vogliono impadronire di risorse preziose, indispensabili alla vita, come sorgenti d'acqua e/o terre fertili, scorte di cibo, etc. Passano i secoli e questa "appartenenza" della popolazione al territorio si sublima sempre più, fino a perdere di vista l'utilità pratica che aveva: al territorio si associa una cultura, creata dall'unione di un gruppo umano (imparentato in qualche maniera, anche alla lontana) con le sue pratiche "specifiche", anch'esse nate dall'abitudine o dall'ambiente (per esempio, se vivo nella tundra, imparo a vestirmi di pelli di foca; se vivo alle Hawaii, sono mezzo nudo e porto un gonnellino di foglie di banano). La cultura "materiale" (cibo, vestiti, manufatti) si intreccia con il culto dei morti, con le credenze sull'aldilà e sul senso della vita, e diventa un tutt'uno con il luogo e con il "popolo" che lo abita, creando la famigerata "identità".
Ovvero: "io sono (in parte) anche quello che la storia del mio territorio e delle persone che lo abitano vogliono che io sia".
Ora, tutto questo è molto bello. Significa che ci distinguiamo (un po') dalle scimmie, che ci siamo "evoluti", etc etc. Tutto molto molto bello. Non scherzo, perché mi piace davvero questa roba, altrimenti non ne avrei fatto l'oggetto del mio studio.
Però poi arriva il bello. Queste (perdonate se prendo in prestito un termine dal marxismo ma è molto comodo in questo caso) "sovrastrutture", molto carine se esaminate in sé stesse, come opere d'arte create dall'ingegno e dalla fantasia umana, a un certo punto diventano strumento di potere. Diventano utili a creare/fomentare conflitti di vario genere, come quello tra classi sociali, tra etnie/razze, tra popolazioni anche appartenenti allo stesso background culturale. Un caso tra tutti, Italiani del nord e del sud che se la litigano a suon di stereotipi. Oppure gli italiani in generale che se la prendono con "gli immigrati", facendo rientrare in questa definizione di tutto di più, senza distinzioni. O, per parlare di un caso più specifico, tutte le resistenze alla creazione di uno stato laico senza eccezioni per tutti.
Questo argomento mi fa molto sorridere. Si tende ad evitare il confronto sulla base della "identità nazionale" di un certo Paese. Con questo argomento si dice: "siccome la storia di questo Paese ha fatto si che la maggior parte dei suoi abitanti si consideri legata ad una professione di fede, allora anche i luoghi pubblici devono essere marchiati con simboli che la richiamano". Qualunque tentativo di sradicare quest'abitudine per richiamare al fatto che uno Stato è una "cosa comune", diversa dalla casa di un privato (in cui giustamente vale la regola "è casa mia, se voglio posso dipingerla anche di rosa a pois marroni, se non ti sta bene non ci entrare"), fa scattare un campanello di "allarme tentata invasione". Ma invasione di che?
<<Di [quel tale gruppo religioso] che vuole venirci a insegnare a noi come si deve fare nel nostro Paese>>.
Uhm. E in che senso "loro" avrebbero torto?
<<Beh, perché "noi" ci siamo fatti le "nostre" regole (per stratificazione storica e "culturale") e a noi vanno bene così, perché "loro" ora dovrebbero cambiarcele?>>

Capite cosa voglio dire? Quello che non accetto è l'uso politico della cultura. E per politica non intendo quella fatta in Parlamento o nei vari luoghi della democrazia. Ma proprio dalle persone.
"Cultura" ha la sua radice nel verbo "coltivare", far crescere. Si riferisce a qualcosa che germina e cresce nella coscienza del singolo. La comunità è importante, certo: è il posto in cui la cultura di ognuno si incontra e si mescola con quella dell'altro per far sprizzare la scintilla della vita sociale. Non avrebbe senso altrimenti. 
I recinti che ci costruiamo intorno, le frontiere, non fanno altro che castrare questo desiderio dell'uomo di espandere la propria coscienza, anche attraverso lo "scontro" con l'altro. L'uso politico della cultura ci obbliga a stare nei confini di una "geografia mentale" di un mondo che non abbiamo disegnato noi, e che nonostante questo ci obbliga a seguirne le orme, senza darci la possibilità di emanciparci.

Comunque in tutto questo non vedo una soluzione, se non il fatto che ciascuno (dei 7 miliardi di umani) si renda conto di questo e modifichi il proprio modo di agire di conseguenza. Il fatto che solo poche persone siano in grado di farlo, perché nate e vissute in un contesto che glielo ha permesso - famiglia borghese, genitori responsabili, istruzione decente e garantita fino al livello universitario, libertà di stampa e opinione - non aiuta, al massimo crea una "avanguardia" percepita come "lontana" da chi non ne fa parte. Così, un altro recinto nasce, un altro confine, meno visibile ma non meno potente, si crea tra "intellettuali" e "incolti". Due popoli con la loro cultura, la loro identità, il loro orgoglio di parte, la loro diffidenza ad incontrarsi. E niente cambia.

Alla prossima
Grillo Sognatore