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mercoledì 3 dicembre 2014

"Quel che accade è una grande novità..."

Occhiali nuovi (un po' quadrati tipo hipster che fanno figo), look nel complesso peggiorato (faccia smagrita, pancetta che avanza, capelli che crescono senza ordine logico e fronte che continua ad ampliarsi a mo' di portaerei), sono cambiate un po' di cose negli ultimi mesi.

Più a livello mentale che da un punto di vista materiale, certo: ho studiato molto. Ho lasciato perdere tante cose che erano importanti, prima, e che viste adesso mi sembrano stupidaggini (tipo, le mille routine quotidiane che avevo in casa, che scandivano la mia giornata, che mi sembrava un delitto scardinare); altre, che lo erano davvero, sono pure state messe da parte, con tristezza (tipo i miei amici).

Di altre ho fatto la conoscenza: abilità che non credevo di avere, fisiche (come il riuscire a fare trazioni e flessioni ed altri esercizi con muscoli che non usavo forse dalle elementari) e intellettuali (come il riuscire a imparare tutta la storia europea dal 10.000 a.C a oggi); anche, addirittura, qualcosina di tecnico (un po' di CGI con After Effects, Blender e compagnia bella).

Ho pensato molto, ultimamente. Voi direte: che novità. Da un lato è vero: non faccio altro che pensare da qualche anno a questa parte. Ma pensato davvero al mio futuro, nel senso: a che persona voglio essere fra 10 anni, a dove voglio arrivare. Arrivare in sé è una parola grossa, mi accontenterei di muovermi verso quella direzione, ma comunque un obiettivo è tale se, almeno nella tua testa, è un punto fermo. Quindi va bene "arrivare". Ho preso delle decisioni, riguardo il mio corpo (basta vita sedentaria e cibo a caso, benvenuta palestra e dieta equilibrata) e riguardo la mia carriera di scrittore ed insegnante.

Ho dato l'anima per le prove di ammissione di questo TFA. Se sia servito a qualcosa non so, l'ho fatto perché credo ancora un pochino nel "sistema", ho ancora fiducia nelle istituzioni dello Stato e credo che se c'è una strada "legale" da percorrere, se uno si impegna riesce a percorrerla fino in fondo. Le prove le ho passate, adesso aspettiamo di vedere le graduatorie e poi chissà. Pagherò quei 2500 euro per avere il diritto di formarmi e diventare un buon insegnante. è ingiusto ma lo farò, perché voglio giocare secondo le regole.

Qualche giorno fa ho fatto la mia prima supplenza in assoluto, per due giorni, è stato devastante e meraviglioso. Mi sono sentito un bambino al luna park, era tutto come lo sognavo, cioè un porcile pieno di alcuni diamanti da pulire e portare alla luce: un mondo difficile, duro, con pochi risultati raramente duraturi, eppure in due giorni sono riuscito a farmi applaudire da una classe e ricevere quello che chiamerei "il" complimento da fare ad un insegnante (specialmente supplente): <<Prof, ma perché non resta con noi sempre?>>.

Stavolta non ho potuto. Ho preso la mia cartellina piena di libri inutili (portata per fare scena, perché se no come mi presentavo?) e sono andato via.

Stavolta.

Alla prossima
Grillo Sognatore

mercoledì 10 settembre 2014

Appartenenza

Qualche giorno fa mi sono stupito di una constatazione molto semplice (del resto, solo le cose molto semplici sono capaci di stupirci: quasi che non ci rendessimo conto della fragile barriera che ci separava da loro).

Stavo lavorando in campagna con mio zio, potavamo gli ulivi. Ad un certo punto ero abbastanza alienato da quello che stavo facendo da permettere alla mia mente di vagare qua e là in percorsi casuali. Mi è venuta in mente una canzone, ma io stesso non la riconoscevo; sono andato avanti a fischiettarla tutta la mattina e mi andava bene così, non ci stavo a pensare troppo.

Poi, mentre stavo scaricando una fascina di rami potati nel mucchio che di lì a poco avremmo bruciato, mi è venuto da ripercorrere la storia di questa canzone, o per essere più precisi la storia di come l'avevo conosciuta, odiata e poi apprezzata.

In breve: una certa persona me l'aveva fatta ascoltare; lì per lì non mi aveva fatto impazzire, ma mi piaciucchiava. Poi ho avuto delle divergenze con questa persona, e il fatto che la canticchiasse abbastanza spesso mi aveva fatto venire in odio la canzone. Per alcuni anni, ogni volta che la sentivo accennare o che ne sentivo parlare (è di un pezzo storico del rock, per cui ogni tanto vuoi o non vuoi lo senti da qualche parte) la associavo alla persona e tac! Partiva il riflusso gastrico.

Poi un giorno, senza sapere niente di tutta questa storia, la mia ragazza la fischietta mentre siamo insieme. Istintivamente mi viene da raccontarle la storia. Lei, sapientemente, fa l'unica cosa sensata: ci ride su, scuote la testa e sbuffa.
Ebbene, in quel momento non lo sapevo ancora, ma con quella risata lei aveva "liberato" la canzone dalle influenze passate, l'aveva fatta più sua ai miei occhi, e da allora non ho più problemi a cantarla, fischiettarla, eccetera.

Di tutto questo mi sono reso conto posando la fascina di rami d'ulivo. Una piccola epifania che mi ha fatto riflettere sul concetto di appartenenza: cioé, molto spesso si insiste sull'appartenenza del singolo a qualcosa come un gruppo religioso, un'etnia, una cultura eccetera. Tutte cose molto vere, certo. Però in ultima analisi sono teorie che fanno sembrare gli oggetti (anche immateriali come una canzone) come qualcosa che interagisce con noi solo in quanto parte di un sistema ampio, per esempio "il rock degli anni '80" o "canzoni dedicate a eventi storici", e che quindi ci interessano in quanto tali (portatori di informazioni, direbbero i teorici). Ma non dobbiamo dimenticarci che le cose, a un livello più piccolo, quotidiano, appartengono innanzitutto a noi e alle persone che ci circondano, e si caricano di affetto, repulsione, diffidenza, interesse, nella stessa misura di quelli a cui appartengono. Così quel paio di ciabatte in più che tieni in casa è il simbolo di una promessa di ritorno, di ritrovi mattutini, di colazioni e sbadigli con qualcuno a cui tieni e che speri di rivedere più spesso possibile; e una canzone che prima odiavi ti rallegra la giornata perché quella persona la fischietta, perché appartiene a lei, e con lei appartiene alle cose belle a cui non vuoi più rinunciare.

Alla prossima
Grillo Sognatore

sabato 5 luglio 2014

Appunto personale

Non ho mai preteso di poter scegliere tra dilettare e insegnare: l’unico vero insegnamento che si può trarre dalla vita è quello nel divertimento. Non impariamo mai quando siamo costretti, ma solo quando proviamo amore, passione, per un’idea, fatto o atto che (prescindendo dai motivi) ci interessa.
Tutto il resto si perde nel colabrodo della ragione o della vita pratica: ma in definitiva quello che tratteniamo ci serve o ci interessa. E quello che usiamo perchè costretti siamo lieti di scaricarcelo dal groppone prima o poi - meglio prima che poi -; mentre ciò che per un guizzo di genialità, o naturale inclinazione, o vissuto personale, o per nessun motivo razionalmente spiegabile, ci attrae, ecco, quello rimane nella nostra testa; si intrufola nei nostri pensieri, senza accorgercene ci influenza, ci fa citare questo o quell’altro (ce lo fa cioè riconoscere come maestro), entra a far parte della nostra vita.

Il dilemma tra autore che diverte e autore che insegna non esiste: esistono autori che sanno insegnare bene e autori che invece sono pessimi insegnanti. Il resto sono chiacchiere da caffé letterario, statistiche di vendita e accumuli di recensioni, che presto o tardi finiscono nel macero. Quello che si salva è il sussurro che rimane nella testa di chi legge dopo qualche anno, dopo decenni, dopo una vita, e che si prova a trasmettere a figli e nipoti dando loro in pasto la propria biblioteca, nell’età in cui, affamati di vita, sono in cerca di insegnanti anche se non lo vogliono. Questo - il circolo virtuoso della buona letteratura - andrebbe coltivato, nei fatti prima che negli scritti; e poi fatto filtrare in quello che uno dà alle stampe, che - si spera - dovrebbe contenere il meglio di sé.

Alla prossima
Grillo Sognatore

venerdì 27 giugno 2014

Ghost track

Tutte le storie meritano di cominciare così, nascoste, un tesoro da scoprire.

Una traccia nascosta che bisogna impegnarsi a trovare, per gustare almeno in parte la fatica dello scrittore.

Vorrei che non ci fosse bisogno di venire allo scoperto, che siano i lettori ad andare a caccia della loro prossima storia, che fiutassero le piste disseminate qua e là dagli autori.

Vorrei che ci fosse passione nel cercare la propria storia. A me succede spesso, quasi sempre, soprattutto quando ne ho appena finita una. Soprattutto se è stata particolarmente bella. Mi sento una tigre che ha appena finito di gustare la sua ultima preda, il muso ancora sporco di sangue, l’olfatto acuto come non mai, i baffi tesi a captare nell’aria il movimento della prossima gazzella.

Tutte le storie hanno il diritto di sentirsi cercate così, bramate, desiderate come la donna che non hai ancora incontrato e già ti eccita, ti stuzzica le voglie, ti rende famelico.

In fondo, tutti noi siamo affamati di storie. Solo che di solito siamo circondati da maître e sommelier ansiosi di farci assaggiare le loro ultime delizie, i loro manicaretti più prelibati, serviti con contorni fantasiosi e sgargianti. Un tripudio di salse, aromi, croste, brodi, stuzzichini, che accompagnano anche il più scialbo bollito o l’arrosto più scadente. Suonano alla nostra porta, ci chiamano al balcone, tirano sassolini alle finestre orde di cuochi che ci aspettano sotto casa per infilarci cucchiaiate di questo e forchettate di quello, che ci aprono la bocca a forza anche siamo già sazi, ci sfiniscono con una sfilza di portate una più grandiosa dell’altra. Tanto che il nostro istinto animale si sta, poco a poco, placando, anestetizzato dall’abbondanza e dalla prodigalità dei nostri carcerieri. L’homo lector è sempre più una specie addomesticata e sempre meno la belva assetata d’inchiostro che per natura è portata ad essere.

Io ho bisogno di storie nascoste e lettori capaci di stanarle, che non sappiano in anticipo cosa troveranno quando aprono il mio libro, che non sappiano nemmeno chi sono io prima di leggerlo. Non ho bisogno di attenzione, di pubblicità, ma di desiderio e paura.
Anche il predatore più temibile sente la paura, nello specifico una paura in particolare: quella che la propria preda scappi via, quella di restare a bocca asciutta, o peggio, quella di restare deluso dal sapore della preda tanto attentamente cacciata. E la preda lo sa, si nega e si concede, si lascia avvicinare e poi scarta di lato, fa crescere nel cacciatore l’acquolina e quello, senza saperlo, si trova a sognare sempre più il sapore fresco delle carni appena addentate, la morbidezza del pelo che sfugge tra i denti, la cartilagine tenera da spezzare.

Così vorrei giocare io con i lettori. Così vorrei lasciarmi prendere un po’ alla volta, senza fretta, tenendoli sulla corda, ammanettandoli al letto, sussurrando loro parole piccanti senza dare nemmeno l’ombra di una soddisfazione. Tenerli in balia del loro più grande terrore, quello della delusione. E poi, finalmente, lasciare che diano un morso succoso al centro della materia, che si inebrino del nettare del discorso, che restino appagati, sfiniti, come ubriachi per la prima volta.

19 giugno 2014

Alla prossima
Grillo Sognatore

giovedì 19 giugno 2014

Un centro di gravità

Ogni tanto torno a questo blog, a questo punto che mi attrae, periodicamente, come un appuntamento con me stesso.
Non è che abbia qualcosa di speciale: è che piuttosto è diventato, con il passare degli anni, un'isola in cui, in dieci minuti, mi lascio andare a pensieri di varia natura.
Un pezzo della mia umanità, insomma.
Per un po' ho cercato di controllarlo, di imbrigliarlo, di categorizzarlo, di inserirlo in un progetto più ampio, ma da qualche mese a questa parte sto accettando il fatto che forse è giusto che vada alla deriva, che continui nella sua direzione erratica e casuale, trascinato dalle vicende della mia vita, dalle mie evoluzioni mentali, culturali, affettive.

Un pezzo di me in qualche modo più autentico rispetto alle cose che scrivo "perché devo", o perché sottoposte al controllo periodico del tempo. Un centro di gravità, sicuramente, forse non permanente ma di sicuro abbastanza duraturo da farmi sentire a "casa".

Alla prossima
Grillo Sognatore

mercoledì 30 aprile 2014

In trappola

[N.b. Questo post non ha un gran filo logico. Va letto come un puro sfogo, una pagina di diario in senso stretto. Ogni tanto fa bene anche andare a briglie sciolte]

Se c'è una sensazione che non ho mai sopportato, è quella di sentirsi in trappola.
La trovo più fastidiosa, più insidiosa e dolorosa della paura, dell'angoscia, della tristezza.

Poi arriva un momento in cui ti senti così inutile, ma così inutile, che ti metti a fare la cosa più inutile di tutte: scrivere. E allora d'improvviso ti sembra di stare risolvendo il problema più difficile del mondo, quello della mancanza di senso. Quindi continui a scrivere, e continui ad oltranza; ad un certo punto ti sembra di stare dicendo troppo, ma tu continui lo stesso, quasi pressato da un'urgenza di trovare il fondo del discorso che stai facendo, sapendo bene che il fondo non c'è, che puoi continuare a scavare all'infinito, e quando sarai stanco di spalare gratterai il terreno con le mani, e quando anche le mani saranno stanche lo scaverai con gli occhi e con l'immaginazione, immaginando di andare più a fondo, di scoprire cosa c'è ancora.
Arrivi ad un punto in cui ti sembra che stiano per finire le parole, ma quelle continuano ad arrivare senza sosta, frase dopo frase e paragrafo dopo paragrafo. Poi, quando sei stanco, esausto, quasi avessi fatto una lunga marcia nel deserto, posi la penna, senza smettere di pensare a quello che avresti voluto dire ancora. Ti prendi una necessaria pausa, con la paura in sottofondo di non riuscire più a riprendere. Come se da quel lavoro, da quello scrivere, dipendessero le sorti del mondo, o perlomeno le tue.

Questa è una parte del piacere della scrittura: rinascere dalla disperazione.

Alla prossima
Grillo Sognatore

martedì 4 marzo 2014

"Cultura"

Più leggo, più capisco che la cultura è qualcosa di intimo. Un "fatto" che ha sede nella mia coscienza. Certo, ha delle radici nella società, nella religione, nella mia generazione, ma non la si può ricondurre a questo, e nemmeno ad un'appartenenza territoriale.
Un libro ha il potere di rendermi fratello di molti che non parlano la mia stessa lingua né professano la mia religione, gente che ha un pensiero politico completamente diverso dal mio, più ricca o più povera di me.
E questo mi fa pensare che, se basta così poco per attraversare barriere che di solito scatenano guerre, beh, allora queste guerre semplicemente non hanno senso.
Molto semplicistico, se volete. Di sicuro è un pensiero che non tiene conto della complessità geopolitica dei conflitti, di tutte le questioni spesso materiali che ci stanno dietro, ma non riesco a togliermi dalla testa che tutta la storia dei conflitti culturali sia una grossa, grossa menzogna alla quale continuiamo a credere perché è confortante, una comoda panacea grazie alla quale possiamo evitare di concentrarci sulle vere cause dei conflitti.
Prendiamo per esempio questa storia dell'identità: un enorme "mostro culturale" creato da secoli di riflessioni che ci impediscono ormai di vedere la questione al suo nocciolo.
Il nocciolo della questione è: ad un certo punto alcuni (non tutti!) popoli della Terra hanno smesso di condurre una vita nomade e si sono stabiliti. Nasce il concetto di "territorio", come qualcosa da difendere e conservare. All'inizio sono questioni pratiche, concrete: bestie selvatiche da cacciare, altri gruppi umani che si vogliono impadronire di risorse preziose, indispensabili alla vita, come sorgenti d'acqua e/o terre fertili, scorte di cibo, etc. Passano i secoli e questa "appartenenza" della popolazione al territorio si sublima sempre più, fino a perdere di vista l'utilità pratica che aveva: al territorio si associa una cultura, creata dall'unione di un gruppo umano (imparentato in qualche maniera, anche alla lontana) con le sue pratiche "specifiche", anch'esse nate dall'abitudine o dall'ambiente (per esempio, se vivo nella tundra, imparo a vestirmi di pelli di foca; se vivo alle Hawaii, sono mezzo nudo e porto un gonnellino di foglie di banano). La cultura "materiale" (cibo, vestiti, manufatti) si intreccia con il culto dei morti, con le credenze sull'aldilà e sul senso della vita, e diventa un tutt'uno con il luogo e con il "popolo" che lo abita, creando la famigerata "identità".
Ovvero: "io sono (in parte) anche quello che la storia del mio territorio e delle persone che lo abitano vogliono che io sia".
Ora, tutto questo è molto bello. Significa che ci distinguiamo (un po') dalle scimmie, che ci siamo "evoluti", etc etc. Tutto molto molto bello. Non scherzo, perché mi piace davvero questa roba, altrimenti non ne avrei fatto l'oggetto del mio studio.
Però poi arriva il bello. Queste (perdonate se prendo in prestito un termine dal marxismo ma è molto comodo in questo caso) "sovrastrutture", molto carine se esaminate in sé stesse, come opere d'arte create dall'ingegno e dalla fantasia umana, a un certo punto diventano strumento di potere. Diventano utili a creare/fomentare conflitti di vario genere, come quello tra classi sociali, tra etnie/razze, tra popolazioni anche appartenenti allo stesso background culturale. Un caso tra tutti, Italiani del nord e del sud che se la litigano a suon di stereotipi. Oppure gli italiani in generale che se la prendono con "gli immigrati", facendo rientrare in questa definizione di tutto di più, senza distinzioni. O, per parlare di un caso più specifico, tutte le resistenze alla creazione di uno stato laico senza eccezioni per tutti.
Questo argomento mi fa molto sorridere. Si tende ad evitare il confronto sulla base della "identità nazionale" di un certo Paese. Con questo argomento si dice: "siccome la storia di questo Paese ha fatto si che la maggior parte dei suoi abitanti si consideri legata ad una professione di fede, allora anche i luoghi pubblici devono essere marchiati con simboli che la richiamano". Qualunque tentativo di sradicare quest'abitudine per richiamare al fatto che uno Stato è una "cosa comune", diversa dalla casa di un privato (in cui giustamente vale la regola "è casa mia, se voglio posso dipingerla anche di rosa a pois marroni, se non ti sta bene non ci entrare"), fa scattare un campanello di "allarme tentata invasione". Ma invasione di che?
<<Di [quel tale gruppo religioso] che vuole venirci a insegnare a noi come si deve fare nel nostro Paese>>.
Uhm. E in che senso "loro" avrebbero torto?
<<Beh, perché "noi" ci siamo fatti le "nostre" regole (per stratificazione storica e "culturale") e a noi vanno bene così, perché "loro" ora dovrebbero cambiarcele?>>

Capite cosa voglio dire? Quello che non accetto è l'uso politico della cultura. E per politica non intendo quella fatta in Parlamento o nei vari luoghi della democrazia. Ma proprio dalle persone.
"Cultura" ha la sua radice nel verbo "coltivare", far crescere. Si riferisce a qualcosa che germina e cresce nella coscienza del singolo. La comunità è importante, certo: è il posto in cui la cultura di ognuno si incontra e si mescola con quella dell'altro per far sprizzare la scintilla della vita sociale. Non avrebbe senso altrimenti. 
I recinti che ci costruiamo intorno, le frontiere, non fanno altro che castrare questo desiderio dell'uomo di espandere la propria coscienza, anche attraverso lo "scontro" con l'altro. L'uso politico della cultura ci obbliga a stare nei confini di una "geografia mentale" di un mondo che non abbiamo disegnato noi, e che nonostante questo ci obbliga a seguirne le orme, senza darci la possibilità di emanciparci.

Comunque in tutto questo non vedo una soluzione, se non il fatto che ciascuno (dei 7 miliardi di umani) si renda conto di questo e modifichi il proprio modo di agire di conseguenza. Il fatto che solo poche persone siano in grado di farlo, perché nate e vissute in un contesto che glielo ha permesso - famiglia borghese, genitori responsabili, istruzione decente e garantita fino al livello universitario, libertà di stampa e opinione - non aiuta, al massimo crea una "avanguardia" percepita come "lontana" da chi non ne fa parte. Così, un altro recinto nasce, un altro confine, meno visibile ma non meno potente, si crea tra "intellettuali" e "incolti". Due popoli con la loro cultura, la loro identità, il loro orgoglio di parte, la loro diffidenza ad incontrarsi. E niente cambia.

Alla prossima
Grillo Sognatore

venerdì 24 gennaio 2014

Si scrive, si gioca.

Ogni volta che la mia mano si posa su un foglio, che sia di carta o virtuale, con la mente smetto di essere me stesso, e nello stesso tempo lo sono davvero. Smetto di essere “quello che dovrei essere”, quello a cui dovrei preoccuparmi di assomigliare, e divento – o ritorno – la semplice persona che sono: una persona fatta di sogni, di idee, di fantasia.
La mia essenza è quella del viaggiatore di mondi: mondi inventati o reali, alcuni esistiti solo nella mia mente, altri già abbozzati o esplorati, altri ancora che fanno parte di un immaginario collettivo, di archetipi dai quali, come in un pozzo senza fine, poter attingere l'acqua della vita. Una vita fittizia forse, ma pur sempre palpitante. Perché il libro – la letteratura, direbbe il prof dentro di me – non smette mai di vivere. È un simbionte che si attacca a chi lo riceve, al lettore, e da lui riceve sempre nuova energia per scrollarsi di dosso la polvere e resuscitare. A prima vista lo si direbbe un insieme di fogli e parole fissate per sempre in modo statico, una statua praticamente. Non c'è nulla di più sclerotizzato, di più mummificato. Il discorso orale, quello si che è la vera vita. Ma verba volant, scripta manent, e così il discorso orale – pur se davvero “vivo” nel senso stretto del termine, pieno di inflessioni, tic, sbagli, sottintesi, gesti – si perde nel vento, ne resta, dopo pochi secondi, solo l'eco che il cervello altrui ha registrato. Un riflesso che sbiadisce dopo poco, del quale si perdono i lineamenti, che lascia solo la traccia dell'essenziale (più spesso dell'inessenziale). La parola parlata si presta solo alla falsificazione, alla manipolazione. La traccia scritta, invece, resta e si presta all'operazione più multiforme di tutte: al gioco.

Scrivere, infatti, presuppone un dato che tutti sembrano dimenticare, che solo ai grandi scrittori è dato tenere sempre a mente: che con la scrittura si gioca. Spesso è un gioco in cui ci si fa male, a volte è addirittura mortale, ma resta sempre e comunque un gioco. La scrittura non è essenziale al mondo: lo sappiamo benissimo. Chi crede sia indispensabile alla vita gioca a sua volta a fare il serio, ma si rende benissimo conto che al di là del foglio c'è solo aria. Solo, fa finta che i suoi castelli, fatti con quei stessi fogli, siano costruiti su basi di cemento e acciaio come i veri palazzi. È solo un altro costruttore disonesto come ce ne sono tanti in giro, spaccia condomini fatti con sabbia e calce come se fossero antisismici. Ma chi è furbo lo sa, che la letteratura di per sé non vale niente. Si vive anche senza: è per questo che l'unico modo per tenerla viva è giocarci, sapendo che a conti fatti le colonne del dare e avere con la vita sono sempre a zero, ma con un po' di finanza creativa, giocando con i numeri immaginari, con quelli irrazionali e sfuggendo alla tirannia di Euclide si può fare finta di essere ricchi, arrivando perfino a ingannare la Borsa, facendosi quotare giorno per giorno in su o in giù, seguendo il capriccio del cuore umano, più instabile dell'indice più ballerino.

Alla prossima
Grillo Sognatore