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lunedì 9 gennaio 2012

Repost: Il Topos della pioggia (più alcune partenze per la tangente) / 23-04-2007

Weilà! è da un po' che non mi faccio sentire.
"che fortuna, un blogger rompipalle in meno sulla faccia della terra! anzi del Web!!!"
ebbene no, vi siete sbagliati di grosso perchè non solo sono tornato, ma torno con un intervento molto ponderato, che è quasi un saggio breve, che ho deciso di pubblicare qui sopra.

Quest'intervento parte da una riflessione ben precisa, che ha vagato a lungo nella mia mente e che volevo sottoporvi: stavo pensando a come mai la pioggia attiri così tanto le idee dei poeti e degli scrittori. Da dove trae forza il concetto della pioggia, quel “topos” che ha un’influenza così grande non solo sullo scrittore, ma soprattutto sul lettore?
Facciamo un esempio, di quelli stupidini.

“Il sole brillava alto nel cielo. L’aria fresca della primavera stuzzicava le narici, e il chiasso delle auto risuonava cristallino tra i passanti frettolosi, incuranti di auto e rumore, oltre che di molte altre cose, non ultima forse la loro stessa vita; camminavano a passo marziale, attraversavano senza un’occhiata alla strada, si muovevano nella massa cittadina senza coscienza, senza guardare davvero, gli occhi persi nel vuoto quotidiano.”
Una giornata primaverile, con come sottofondo l’amarezza cittadina, il “male di vivere”, la superficialità della gente. Non perfetto, ma che rende abbastanza bene l’idea. Guardate adesso, però.

“Scendeva lentamente una pioggerellina fitta e silenziosa, che inumidiva l’aria e rendeva zuppi i vestiti, penetrando in ogni minima fessura, appesantendo il respiro. Tra il riverbero dei fanali delle auto sulle pozzanghere e la luce fastidiosamente amplificata dei lampioni i passanti, ciascuno immerso nel proprio malumore, poco si curavano delle auto e del loro chiasso, e di molte altre cose, non ultima forse la loro stessa vita; camminavano strascicando i piedi, con le scarpe che schioccavano sull’acqua dei marciapiedi, e intanto la pioggia schermava i loro volti, le loro espressioni che si cancellavano in un’indistinta maschera di angoscia e sofferenza, rancore e silenzio.”
Si sente la differenza, eh? Adesso un altro esempio, questa volta positivo.

“Andrea, con il sollievo nel cuore, alzò gli occhi al cielo. Un gran sole si innalzava maestoso dopo la notte tormentata, scaldandolo e accarezzandogli i riccioli con un tiepido venticello; respirò a pieni polmoni l’aria mattutina, pensando: ‘si. Questa è decisamente una bella giornata.’”
Ed ecco il contraltare.

“Andrea, con il sollievo nel cuore, scostò le tendine e guardò fuori dalla finestra. Quella gran pioggia che aveva sconquassato cielo e terra nella notte si stava placando, lasciando intravedere tra le nubi indebolite dallo sforzo timidi affacci di sole, nitidi sullo sfondo delle colline; respirò profondo l’aria che si stava alleggerendo, pensando: ‘si. Questa è decisamente una bella giornata.’”
Il concetto è quello del ritorno alla pace dopo un lungo dolore. Nel primo e terzo esempio (sono tutti di mia fantasia, se ho citato qualche autore è stato per puro caso), la sensazione che si ricava è quella rispettivamente di un distacco dalle vicende narrate e di un breve dolore che, per fortuna, è passato in fretta. Come mai, invece, il clima piovoso provoca, nel secondo e quarto esempio, un maggiore coinvolgimento e la sensazione di un dolore che sta passando ma che lascerà strascichi per molto tempo?
La risposta è nelle parole correlato oggettivo, cioè una correlazione tra oggetti appunto.
Se avessi detto “metafora” forse sarebbe stato più chiaro, ma in realtà di metafora non si tratta, ma dell’ “incorporamento” di uno stato d’animo in un particolare oggetto o fenomeno, o delle caratteristiche di qualcosa in qualcos’altro: diciamo che approssimativamente “correlato oggettivo” è sinonimo di “simbolo”, perché con il simbolo ha molto in comune: innanzitutto, nominando qualcosa non nominiamo ciò a cui si riferisce. Se dico “Cupido” tutti pensano all’amore, insomma; nella stessa maniera, se io dico (o evoco, in questo caso) “pioggia”, intendo dire qualcos’altro che non esplicito, ma che è comunque espresso nei suoi attributi, nel modo in cui la descrivo.
Badate bene, è qualcosa di più della semplice descrizione dell’ambiente in cui si svolge un’azione: è il dare un preciso significato all’elemento descritto, un significato più sottile che fa da sfondo all’idea principale e la devia leggermente, come fa un musicista che, pur usando lo stesso tema in una sinfonia, lo varia in alcuni passaggi: è sempre quello, ma non dice più esattamente la stessa cosa.
A cosa si riferisce, quindi, la pioggia? Questo è ciò che mi chiedevo da un po’ di tempo, da quando almeno mi sono reso conto che la maggior parte delle mie poesie ne trattava, direttamente o no.
Piano piano, pensandoci su, ci sono arrivato: perché ci ricorda noi stessi. Capite?
 Ci riconosciamo in essa, ci vediamo delle nostre caratteristiche: la vediamo come compagna, insomma, come un soggetto in carne ed ossa, e questo perché ci assomiglia molto.
Innanzitutto è fatta di acqua, l’elemento duttile e mutevole per eccellenza, che corrisponde alla mutevolezza e alla precarietà dell’uomo, poi è costituita da tantissime goccioline minuscole indistinguibili le une dalle altre, che eppure sono distinte e diverse; che ne dite, non siamo noi questi?
Come se non bastasse, è un po’ l’Alfa e l’Omega della vita.
Proviene dal cielo, quindi cade, cioè è soggetta alla gravità pur essendo parte delle nuvole, cioè di ciò che da secoli nell’immaginario collettivo è simbolo di leggerezza, di sovrastasi sulla terra: non dovrebbe precipitare, insomma, ma lo fa, dona vita alla terra senza che questa lo chieda, o proprio perché essa lo chiede (a seconda delle circostanze). È qualcosa di inaspettato, illogico, sconvolgente per le sue cause e per i suoi effetti: vi dice qualcosa questa descrizione? Quali altre cose possono essere rappresentate in questo modo?
Senza andare troppo lontano e fare altri ragionamenti (già sono abbastanza finora), principalmente due: il pianto e la fecondazione, l’uno simbolo del dolore e l’altra della
nascita, l’uno simbolo di Thanatos e l’altra di Eros; non è così, se ci pensate? Il pianto del cielo, la sua risposta e compartecipazione alle vicende umane, che lava via il male spazzando via la sporcizia, e nello stesso tempo la fertilizzazione della Terra, una sorta di “amplesso
naturale” insomma.
La pioggia è Amore e Morte, sofferenza e vita; ecco perché affascina, ecco perché ogni volta che piove non posso fare a meno di pensare che il cielo, il mondo, l’universo intero stia piangendo, e nello stesso tempo innaffi con il suo pianto il seme della vita che verrà, e che il sole che sbucherà dopo tra le sue nubi riscalderà fino a farlo germogliare.
Ma come si fa a spiegare queste cose? Io non ci riesco fino in fondo... Beato colui che saprà parlare del sole e della pioggia, del pianto e del sorriso, che saprà trovare le parole per dire “vita” e poterla davvero invocare! In certi momenti mi rendo conto che la poesia sta in qualcosa che non ho ancora trovato e forse non troverò mai... Forse sarebbe meglio lasciar
perdere tutte queste cose, andare dalle persone e dirgliele in faccia, per far si che almeno dagli occhi, dagli zigomi, dalle sopracciglia si capisca ciò che l’anima dice, forse bisognerebbe smettere di scrivere; la vera poesia non è tra queste parole né tra altre, non è mai esistita davvero né esisterà mai. Possiamo solo balbettare con la nostra voce imperfetta, sperando che un giorno l’abisso che divide la nostra volontà dai sogni si colmerà, e potremo conoscere davvero le cose.
Però, ragazzi, il solo pensiero che il mio balbettio possa avvicinarsi un solo millimetro in più all’orlo di quell’abisso mi fa sentire bene, più sicuro, mi fa camminare meno sbilenco per la strada, capite? È una certezza che danno poche altre cose, almeno a quella profondità.

Ecco, come al solito mi sono allontanato dal discorso, mai una volta che riesca a finire come inizio.

Grillo Sognatore

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