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lunedì 12 dicembre 2011

Repost: Delirio mistico / 07-06-2006

L’Incontro

Seduto, con la testa riversa, non sono attraversato da nessun pensiero; un'indistinta massa di sensazioni senza capo né coda permea la mia mente.
Dicono che è in questi momenti che si riesce a cogliere la vera essenza delle cose, che si riesce a scorgere la Verità nei meandri della propria mente: dicono che si possa vederla come se fosse fisica, reale, come se la si incontrasse di persona.
Ecco, riesco a vederla, tra i miei ricordi e le nozioni; ora si rifugia dietro l'imponente ammasso delle Formule Goniometriche, ma la scovo; non riesco ad afferrarla e, con un agile balzo, corre fino alla quieta collina dell'Elettromagnetismo; di lei mi resta l'odore soave delle vesti leggere. Sorride, mi schernisce; decido allora di giocare d'anticipo. Prendo la scorciatoia che dalla Storia del Novecento mi porta alla Poesia Contemporanea, scavalco d'un colpo la piccola Staccionata dei Crepuscolari, sorpasso le scintillanti Auto da Corsa Futuriste, oramai ferme da decenni ad arrugginirsi, e mi immergo nella soffusa Nebbia degli Ermetici. Conosco ogni piega di quel cangiante paesaggio, ne prevedo le mutazioni e le variazioni di significato; ogni possibile svolta dei suoi sentieri mi sta davanti. D'improvviso ecco, la rivedo; fugge rapida come il vento dall'unico posto in cui è più fragile che mai, dall'unico posto in cui l'uomo le si avvicina tanto da poterla sfiorare. E difatti mi è ad un passo, senza che se ne sia accorta; le sono alle spalle ma, nel momento in cui mi getto addosso lei sfuma, si dissolve, si scioglie in quella Nebbia che pure è l'unico mezzo per raggiungerla; eccola che riappare, più in là, nell'aria limpida, nella multiforme Valle dei Cubisti in cui ogni piega nasconde un universo, in cui i punti di vista si moltiplicano fino a diventare insostenibili. Non riesco a concentrarmi, la perdo di vista e poi la rivedo, poi la perdo di nuovo e riappare in lontananza.
Mi chiedo ora se sono io che riesco a starle dietro, o se piuttosto è lei che non si fa perdere, che si tiene a distanza senza però mai abbandonarmi del tutto.
Non posso darmi per vinto, ed ecco che - maledetta! - mi sfugge, ancora e ancora per un soffio, nella Valle dei poeti Maledetti e tra i Dirupi del Nichilismo; né riesco a catturarla nel Labirinto Combinatorio o a stordirla con l'adulazione nel Giardino dei Classici; continuiamo così, in eterno, io a rincorrerla affaticato e furioso, lei giocosa e ridente, io ansimante e grondante di sudore, lei leggera e scattante come una
libellula, finché allo stremo delle forze rallento. Lei svolta un angolo, la seguo più meccanicamente che per vera volontà.
Un paesaggio sconosciuto mi si rivela; la calda luce del tramonto illumina una valle piena di rovine delle più disparate, ricoperte da uno spesso strato di polvere; al mio passaggio decine di topi fuggono via spaventati. Frammenti di antiche opere, scritte in lingue incomprensibili, svolazzano per i sentieri che separano tra loro cumuli
di ricordi vecchi e cancellati, tra i quali riconosco alcuni dei miei; soprammobili rotti, foto semisciolte nell’acido, arti spezzati di statue, crocifissi corrosi dal tempo, grigi e solcati da profonde venature, con centinaia di Cristi sfigurati che, appesi, soffrono in
silenzio.
“La Valle delle Macerie”, dico a me stesso, mentre mi chiedo come diavolo abbia fatto a finire in quel posto perduto a qualsiasi conoscenza; lei è lì, è ferma e capisco di essere arrivato all’unico punto in cui davvero è possibile afferrarla, ma le forze mi mancano.
<<Vedi>>, lei mi dice, mentre esausto mi accascio su un cumulo di miei vecchi ricordi, <<è qui che io abito, tra ciò che è stato distrutto inconsapevolmente; guarda>> e mi indica un vecchio trattato di Sant'Agostino, mezzo divorato dai topi, <<è qui che bisogna cercare; oppure qui, o ancora tra questi cumuli>> e mi mostra pezzi di statue greche, neoclassiche, rinascimentali, gotiche, poi mucchi di foto e diari scritti da persone di ogni epoca, da Cesare ad Anna Frank, poi si china e raccoglie un oggetto irriconoscibile, rovinato dal tempo e fragile come la cenere, con le sue esili dita; si avvicina a me che, sfinito, non riesco nemmeno ad alzare un braccio e resto a guardarla, e mi dice: <<ecco, questo ti dono, questo solo posso darti; non il piacere infinito di possedermi, né la certezza di sapere che non potrò mai essere tua; ti dono una parte di me, come ho fatto e continuo a fare con tutti coloro che mi cercano; solo una parte, sebbene forse la più importante ed essenziale>>. Strappa un lembo della sua veste, raccoglie l'oggetto e lo avvolge, poi lo posa vicino a me, mi si avvicina - posso vedere i suoi occhi scintillanti, pieni di ogni colore - e mi sorride, e fugge via ancora una volta.
Recuperato il fiato, mi rialzo – “ti riprenderò, prima o poi!” - , mi scrollo di dosso la polvere e prendo delicatamente il soffice involto, badando a non disfarne nemmeno una piega; il desiderio di aprirlo è forte, ma mi trattengo. Cosa mai sarà, quella cosa inutilizzabile?
Lo apro lentamente e resto pieno di meraviglia. Al suo interno scintilla, nuova come fiamma, una penna di gabbiano bianchissima.

(In risposta ad Elena...)

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