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mercoledì 13 giugno 2012

Post qualunque 2: Gianni Celati, Georges Perec.

Come detto, mi serve far uscire delle cose che ho in testa, per poterle accantonare almeno provvisoriamente.
Anche se alla fine dei conti, non è che ne abbia tante: avendo smesso di fare qualunque altra cosa, sto studiando quasi tutto il giorno, a parte quando faccio le prove di teatro, quindi per fortuna quel brulicare tipo coltura di batteri, con le colonie che si formano perchè un gruppetto di batteri migra e si crea il suo bel centro urbano, ha rallentato moltissimo.
La mia attività cerebrale si sta stabilizzando. Ovviamente non è un bene, in assoluto, soprattutto perchè lo sto facendo forzatamente, quindi mi sento frustrato a mille. Ma, tenendomi in coma farmacologico, almeno riesco a pensare a poche cose alla volta. L'ideale sarebbe aumentare ancora un po' il dosaggio dei tranquillanti (virtuali eh! Non sono sotto farmaci davvero) e ridurre il flusso mentale fino ad una sola idea per volta, un solo pensiero elementare e semplice per volta, come in fila, in modo da pensarlo, scriverlo e passare al successivo.
Ci sto lavorando. Chissà che razza di risultato... mah...
Comunque ho capito perché questa tesi è così difficile da scrivere: perché non riesco davvero ad apprezzare questi romanzi su cui sto scrivendo. O meglio, c'è uno dei due autori che mi piace (Georges Perec), l'altro no (Celati). Intendiamoci, Celati è una brava persona, intelligente, ha in mente beato lui una specie di missione della letteratura, ha degli obiettivi, sfido gli altri scrittori ad avere almeno un decimo della sua onestà intellettuale; ma i suoi primi romanzi mi fanno proprio cagare, detto come va detto. Durante gli anni Settanta era un giovanotto spaccone che credeva di fare il rivoluzionarioncello della letteratura, e lo posso pure capire, tutto quel Sessantotto con la sua politicizzazione aveva scassato i maroni, ma cavolo, da qui a creare un personaggio come Guizzardi ce ne vuole... poi oddio, a leggerli ancora ancora ce la si può fare: in fondo, il lettore ha i suoi diritti sacrosanti, Pennac insegna. Può prendersi tutte le libertà che vuole, ed è giusto così: il laureando, purtroppo, non può. Deve rimanere neutrale, oggettivo, deve dare il giusto peso a quello che uno scrive. E il "giusto peso" spesso differisce dal gusto personale... come in questo caso. Quindi, come faccio ad analizzare la comicità (su quello si basa la tesi) di testi che non mi fanno ridere per niente? Qui sta il dramma. Stessi facendo una recensione direi: "Caro Sig. Celati, io lo vedo che lei si sforza di far ridere, di riprendere in mano la tradizione picaresca, i romanzi d'avventure, anche Pinocchio; le storie di Guizzardi sono effettivamente buffe, nel senso che sono bizzarre, surreali e sconclusionate; ma questo non mi strappa neanche una risata, ma neanche una piccolina. Casomai mi interessa da freddo intellettuale, mi dà qualche spunto di riflessione su come si possa rielaborare l'epica nel contemporaneo etc etc; mi dà un sentiero da percorrere, ma non è una pietra miliare. Appena ho finito di leggere i Parlamenti buffi, e soprattutto Le avventure di Guizzardi, ho avuto subito voglia di parlare delle stesse cose, ma assolutamente non in quella maniera, anzi evitando come la peste quello che lei ha fatto, perché quei tre romanzi mi hanno lasciato addosso un'angoscia di malfatto che non riesco a togliermi di dosso se non scrivendo a modo mio e per bene le stesse cose". Ora, sarò presuntuoso pure io, ma questa è la verità. Gli sperimentalismi mi sono sempre stati indigesti: io faccio un sacco di esperimenti, ma poi li butto e ne traggo il succo per poter scrivere seriamente. Gli esperimenti hanno un senso se ottieni un risultato; se no, meglio buttarli nel cestino. Dagli anni Ottanta in poi Celati ha scritto cose molto migliori, secondo me, e secondo me proprio perché ha smesso di voler essere pretenzioso e si è messo a guardare il mondo; e se uno legge i Costumi degli italiani, ci trova dentro la stessa bellezza di Guizzardi, la stessa freschezza, ma una forza totalmente nuova e una voglia di scrivere non più "barocca", che vuole soffocare il lettore, ma amichevole con lui, che gli dice: "facciamo un patto: io ti racconto una storia; se ci vuoi credere, sta a te".

Vabbé. Sto allargando il discorso. Una cosa del genere non la posso dire nella mia tesi, quindi tanto vale che non mi ci metto nemmeno a pensarla. Comunque Georges Perec era un grande proprio perché lui con la letteratura, fin da subito, si è messo d'impegno, e l'ha trattata come la sabbia che ti scorre tra le dita e tu cerchi di trattenerla mettendo l'altra mano sotto, e così via finché non ti rimangono che due granelli nel palmo che conservi in cassaforte, perchè sono quelli fortunati, quelli che non ti hanno voluto abbandonare. E le sue opere sono il flusso di quella sabbia che si travasa di mano in mano, e più si riduce più i singoli granelli risaltano e brillano, uno ad uno, e parlare e scrivere diventa parlare e scrivere di quelle briciole di realtà che ti sfavillano intorno. Su Celati invece, sul Celati dell'inizio, direi che ha voluto dire troppe cose, troppe cose troppo grandi, e le ha dette male; poi ha capito anche lui la lezione e poco alla volta sta cercando di metterla in pratica; ma da qui a raggiungere Perec... ce ne vorrà...

Bon, ora che mi sono sfogato abbastanza me ne vo.

Alla prossima
Grillo Sognatore

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